Officina delle idee

CENTO ANNI E NON SENTIRLI

Quando ti approssimi a un’età di riguardo, in grado di suscitare curiosità ed interesse in tutte le persone che anche casualmente si imbattono nei tuoi dati anagrafici, la domanda che più frequentemente ti senti rivolgere è: “Don Gennà, ma qual è il segreto per arrivare fino a lì?”.Io che sono nato nella brulla campagna del Sannio, a poche miglia da quelle Forche dove persino i Romani dei sogni imperiali dovettero cedere il passo, risposte auliche non ne possiedo; e riguardando le immagini della mia gioventù, dei miei primi anni in quel di Rosciano, l’unica risposta che affiora al ricordo, l’unica degna di esser condivisa, è più o meno sempre la stessa: “Il vino. Lo bevo da quando sono piccolo, non avevo nemmeno 6 anni d’età. Quando non c’era abbastanza farina per la pasta. Quando l’orto restitutiva poco e non si poteva comprare null’altro, l’unica soluzione era il vino, cotto e con tozzi di pane a corredo. Tutti i giorni, ma mai troppo. Perché, come diceva mio padre Crescenzo, chi beve vino è un leone, chi beve troppo è un porco”. Chi ascolta la risposta, come prima reazione alza gli occhi, si assenta per qualche istante, poi ritorna rapido su di me ed esclama: “Bevete vino da 94 anni! Benedica, Don Gennà!”. In realtà, per essere esaustivi circa il tenore di vita che sin dagli albori mi ha temprato corpo e spirito, dovrei narrare delle giornate nei campi, delle ore trascorse ad aiutare i genitori e fratelli – sulla terra umida, ghiacciata dal freddo o resa molle dalla calura agostana -, degli aratri e delle zappe, dei giochi semplici e primitivi con gli amici, del sapore dolce e mai ritrovato dei frutti colti in strada, del digiuno, a volte forzato, e del piacere, unico e irripetibile, dei pranzi nei giorni di festa. Ma, a esser sinceri, la vita dei campi a me non è mai davvero piaciuta, ed i miei genitori, a volte con le buone, altre con le cattive, non mancavano mai di sottolinearlo. Io sentivo, percepivo di essere nato per qualcosa di diverso. Per qualcosa che avrebbe potuto cambiare, per sempre, la mia vita. Fu così che, compiuta l’età della maturità, inoltrai domanda per l’arruolamento nel Corpo della Guardia di Finanza. La scelta dell’arma fu facile: nessun ordine militare, infatti, mi pareva più utile e pertinente di quello dei finanzieri. Uomini di legge e disciplina, certo, ma anche di astuzia ed intelletto, quotidianamente a contatto con calcoli numerici ed investigazioni complesse. Trovavo, inoltre, che la divisa verde con inserti gialli s’intonasse particolarmente con la mia figura, attribuendomi un’eleganza che, nel corso degli anni, diventò tratto distintivo della mia persona. Quando ricevetti replica dal Comando Generale, dunque, con allegata la convocazione per le visite mediche e i controlli di rito, fui sopraffatto dalla gioia: in meno di un mese, superate le selezioni preliminari, il mio percorso nella Guardia di Finanza era concretamente iniziato. Il tempo di salutare i miei affezionati genitori, i miei fratelli e la mia cara sorella Titina, e fui destinato, insieme a un centinaio di giovani neo-arruolati, alla Caserma di Roma, in Viale XXI Aprile, dove svolsi l’addestramento obbligatorio semestrale.Le soddisfazioni più grandi, però, le ebbi quando, concluso il tirocinio d’apprendimento e ricevuta la mia prima destinazione effettiva, mi diressi alla stazione di Finanza di Montegeneroso, in Lombardia, al confine con la Svizzera. Lì fummo incaricati di presidiare il valico d’ingresso nel territorio italiano, bloccando tutti i contrabbandieri che in massa utilizzavano il passo per introdurre illegalmente sigarette in Italia. Si trattava di un compito oneroso e difficile, reso ancor più complesso dalle condizioni climatiche invernali, con temperature molto basse e neve lungo tutto l’inverno. Nonostante il duro lavoro, però, ricordo quel periodo come uno dei più felici della mia gioventù: i pasti abbondanti, la qualità e varietà dei cibi, le tante amicizie con i colleghi, il clima fresco e secco – ideale per un temperamento caldo come il mio -, l’aria salubre e pulita, le camminate interminabili in perlustrazioni di luoghi mozzafiato ed indomiti. Professionalmente, inoltre, quel periodo fu molto prolifico: scoprì di avere, infatti, un’innata propensione alla “cattura” dei contrabbandieri, confermandomi l’ottima scelta del corpo di Finanza.Di quel periodo, inoltre, ricordo con vivo piacere le giornate di congedo trascorse in quel di Corsico, provincia di Milano, dove fui destinato immediatamente dopo Montegeneroso. Fu lì che entrai per la prima volta in contatto con la “moda milanese”, di cui divenni subito un appassionato e fedele interprete, sfoggiando gli articoli che acquistavo con orgoglio e grande senso del gusto: le donne che incontravo non mancavano di rilevare il loro apprezzamento, tutte pronte a qualunque cosa pur di essere invitate a uscire. Inutile descrivere, poi, l’effetto che questa moda ebbe sui miei compaesani sanniti, quando, in licenza, tornavo a far visita alla mia famiglia. Il mio aspetto divenne un sicuro segno di successo, e in tutto il paese si sapeva che Nannino poteva far sospirare ogni ragazza. Nel mentre, tra l’altro, le mie visite a Rosciano si intensificarono: per ricongiungermi con i miei cari, infatti, avevo chiesto ed ottenuto un riavvicinamento alla casa paterna. In ragione di ciò, dunque, ero stato trasferito a Benevento, dove ero l’unico celibe, e per questo necessitato a cucinare per me stesso: eventualità, quest’ultima, che non ho mai gradito, avendo sempre preferito, come tutti i miei cari perfettamente sanno, l’essere servito e riverito. Chiesi e ottenni un nuovo trasferimento, questa volta a Scario, provincia di Salerno. Anche qui però, le condizioni non erano favorevoli: lunga porzione di costa da sorvegliare, poche ore di sonno e scarsità di cibo. Anche a Scario non restai a lungo.La fine degli anni ’30, inoltre, segnò un punto di svolta nelle dinamiche politiche internazionali: la situazione precipitò molto presto, in ragione dell’aggressività della Germania di Hitler. Avendo fatto richiesta d’inserimento nelle liste di mobilità, essendo giovane e privo di famiglia propria, fui indirizzato al contingente italiano di stanza a Valona, Albania. Il nostro compito era quello di aiutare i tedeschi, nostri alleati, nel controllare l’eventuale avanzata dell’esercito inglese, stabilitosi in Egitto a dominio del delta del Nilo. L’ostilità dell’esercito albanese e di quello greco, però, ci colse impreparati: quella che doveva costituire una operazione di routine si era tramutata in una vera e propria guerra. Il giorno che attraversai il confine con la Grecia, mai avrei potuto pensare che una delle esperienze più travolgenti e significative della mia vita era sul punto di incominciare. Su quella terra straniera, infatti, avrei incontrato la donna della vita, colei senza la quale, indubbiamente, mai avrei potuto essere qui a raccontarvi la mia storia centenaria.vI greci si rivelarono ostili. Il 28 ottobre, infatti, risposero ufficialmente con un diniego alla richiesta di attraversamento del loro suolo da parte delle nostre truppe: l’Italia e la Germania erano in guerra contro i greci. Nonostante il clima teso e le continue pressioni cui, da militari, eravamo sottoposti, la terra ellenica mi riservò il dono dell’incontro con la mia futura moglie: la bellissima Stasia. Con premurosa ed attenta cura, la giovane di Kalogresa, piccolo centro ad est di Atene, ora sobborgo della capitale greca, mi aiutò e protesse nel momento più difficile del mio soggiorno ellenico, quando, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quelli che fino ad allora erano stati alleati divennero nemici. Se i partigiani comunisti si erano rivelati avversari preparati, il potere della forza nazista era terribile: Stasia mi fornì nascondiglio e sostentamento, garantendo che la mia vita non fosse mai destinata a finire nelle mani sbagliate. Con lei, tutta la sua famiglia si dimostrò comprensiva e vicina alle mie esigenze: persino uno dei suoi fratelli, Cristos, partigiano comunista, contravvene ai suoi stessi ideali e battaglie in onore della fiducia che, grazie a Stasia, mi eri guadagnato presso i suoi cari. Più volte dovetti ricorrere ad artifici e raggiri per salvare la mia vita: in ognuno di questi, la mia compagna ricoprì un ruolo decisivo, specialmente quando dovetti travestirmi da donna per sfuggire agli esecutori tedeschi.In ragione del forte sentimento nato tra noi, decisi di chiederla in sposa e, non molto prima del mio ritorno in Patria tramite un velivolo inglese, chiesi la sua mano, convolando a nozze nel più terribile e drammatico periodo della storia dell’ultimo secolo. Se la guerra, tremenda e crudele, volgeva al termine, una nuova storia, meravigliosa e dolcissima, era appena cominciata. Ricordo con viva ed intatta saldezza l’emozione che provai quando, al diradarsi delle nubi sul golfo di Otranto, cominciai a scorgere la sagoma affilata dello Stivale. Ero davvero di rientro nella mia amata Patria!vPurtroppo, però, Stasia non potè raggiungermi subito. Passò del tempo prima che la nostra famiglia potesse stabilizzarsi. Superai tutte le procedure di reinserimento al ruolo della Guardia di Finanza e venni destinato a Benevento, città che mi consentiva di non essere lontano dai miei genitori. Quando la mia adorata moglie si ricongiunse a me, la introdussi in famiglia: fu una gioia poter vedere tutte le persone che amavo ricongiunte in un solo abbraccio, miracolo per il quale sarò sempre grato a Dio (ed a S.Anna, mia speciale benefattrice). La vita con mia moglie si svolgeva con tranquillità ed idillio. Come ogni coppia non mancavano lievissime divergenze, spesso dovute alla sua eccessiva gelosia. Ricordo ancora quando una sera, di rientro dal lavoro, m’imbattei in una sua collega, impiegata presso la fabbrica di fiammiferi del capoluogo sannita: da galantuomo quale da sempre mi vanto d’essere, mi fermai per un breve saluto. Stasia, in transito lungo la stessa strada, ma dal marciapiede opposto, mi vide e s’ingelosì all’istante: vi assicuro che non fu semplice il mio rientro a casa!I figli non tardarono ad arrivare: nel 1946 nacque Guerina (o Maria? Dite che si offende?!), mia primogenita, cui demmo il nome della mia adorata mamma. Pochi anni dopo, nel 1949, venne al mondo Anna, così chiamata in onore e come tributo a S.Anna. L’esperienza della paternità fu emozionante e difficile, ma comunque piena di soddisfazioni: entrambe eccellevano negli studi e negli sport, dandomi alcun motivo di preoccupazione. Scoprì altresì d’essere un padre attento e premuroso, serio e presente, nonostante la mia professione mi portasse a turni sfiancanti e spesso notturni, con poche ore di riposo. Nel 1956, poi, nacque Crescenzo, con il quale ebbi opportunità di continuare la tradizione della mia famiglia, in base alla quale il primo maschio porta il nome del nonno. In verità, essendo nato a ridosso della festa di S. Giuseppe, il ragazzo fu da subito appellato come Pino, dagli amici Peppe, generando uno dei casi di polinomia più divertenti e gustosi della nostra famiglia. Arricchita dall’arrivo di ben tre bambini, vivevamo con spensieratezza ed armonia la vita del quartiere, il rione S. Modesto, lungo la cui via Bari, al civico sei, avevamo fissa dimora. Erano anni felici, meno fasti di quelli odierni, ma più pacifici e sereni, con la comunità rionale che fungeva da vera e propria famiglia. Trascorrevamo le vacanze estive nella meravigliosa Scario, lungo la costa salernitana, dove adoravo la fresca brezza marina ed i giochi di spiaggia con i figli. In particolare, rievoco sempre con piacere le “prove fisiche” cui mi sottoponeva Pino, chiedendomi ripetutamente di sollevarlo con la sola forza di un braccio, facendolo sedere sulla mia mano, o quando mi costringeva a seppellirmi vivo nella sabbia, solo la testa all’aria aperta. Spesso, inoltre, portavo i nipoti dai nonni e dagli zii, a Rosciano, facendo si che potessero conoscere e rispettare le loro origini sannite, crescendo con l’affetto e l’esempio dei miei genitori e dei miei fratelli.vProprio per questa stessa ragione, non mancavano le visite in Grecia. Stasia raggiungeva ogni anno i suoi cari, portando con sè i ragazzi. Io, quando potevo, partivo con loro o li raggiungevo, dando alla mia cara moglie l’opportunità di passare del tempo con la sua famiglia, tributando ossequio alle sue origini elleniche. Il clima mite, il temperamento mediterraneo dei suoi fratelli, poi, ci dava occasione per grandi risate e memorabili momenti, scanditi al ritmo del sirtaki e all’afror del giallo nettare della retzina. Una famiglia così bella, naturalmente, non poteva restare per sempre uguale a se stessa: era destinata a crescere. Nel 1968, la mia primogenita Maria, nel mentre divenuta brillante funzionario dell’INPS, convolò a nozze con Geppino, seguendolo nella sua nuova avventura di vita in quel di S. Maria a Vico, ricongiungendosi con la stessa terra da cui provenivo. Diversi anni dopo, nel 1977, anche Anna, a sua volta dipendente INPS, incontrò suo marito Enzo, trasferendosi in quel di Milano, dove pure andammo spesso a trovarli. Con le mie figlie, giovani donne, lontane da case e concentrate sulla loro nuova vita, rimanemmo in via Bari in tre: fu così che decidemmo di trasferirci, nel 1974, in via Pacifico, al numero 69, casa che tutt’ora mi ospita. Pino, sportivo e rugbista dal sicuro talento, decise di intraprendere gli studi d’educazione fisica, dando seguito alla sua innata e speciale passione per le discipline atletiche.In quegl’anni divenni anche nonno: Maria, infatti, diede alla luce Danilo, mio primo nipote, seguito da Melania, primogenita di Anna e dalla sorellina Paola. La nascita dei miei nipoti è stata senza dubbio la gioia più grande della mia vita, grazie alla quale ho riscoperto un lato infantile di me che, complici la vita militare e le asprezze della guerra, avevo integralmente sepolto dietro un carattere apparentemente silenzioso e riflessivo. Ogni ora del mio tempo, subito dopo il congedo dalla Finanza, era destinato al divertimento ed alla ricreazione dei miei nipoti. Con loro ho potuto rievocare i giochi che facevo con i miei figli, riviere le piacevoli giornate estive in riva al mare di Scauri, sentirmi al centro dei loro progetti di vita e sostenerli con ogni mia forza. Con l’arrivo di Gennaro Ilias, figlio di Pino e della sua bellissima moglie Miriam, e che in mio onore porta questo nome, ho potuto inoltre dare sfogo ad ogni mia abilità, in particolar modo quelle manuali. Non c’era macchinina, pistola, giocattolo di ogni tipo che non fossi in grado di aggiustare e mettere a nuovo. “Aggiusta, aggiusta” era la richiesta immancabile, e non poche leggi della fisica hanno dovuto piegarsi all’astuzia di Nannino! Furono gli anni che mi valsero persino il mio soprannome, Nonno Tutù, poiché spesso andavamo alla Stazione Libertà o Appia per guardare, a volte per ore intere, i treni giungere al binario con il loro inconfondibile suono. L’arrivo di Nicolas, secondo genito di Anna, e di Xenia, figlia di Pino poi, conclusero il mio sogno di Nonno, con ognuno dei miei figli a sua volta genitore di due splendidi ragazzi.Tutti insieme abbiamo festeggiato, nel 199(?), i 50 anni di matrimonio miei e di Stasia, una cerimonia bellissima, che ha visto riunita tutta la famiglia nei miei luoghi d’origine e d’infanzia. Tutti hanno celebrato la nostra meravigliosa ed avvincente storia, dandomi la soddisfazione di trascorrere con noi un giorno lieto e meraviglioso, e restituendomi la festa per un momento, quello del matrimonio, che ai tempi della sua celebrazione, per colpa dell’infame guerra, non fu a dovere festeggiato. Nel 1998, infine, il Presidente della Repubblica ed il Presidente del Consiglio mi tributarono l’onore del riconoscimento di Cavaliere della Repubblica, titolo che tutt’ora di riempie il petto di orgoglio, in quanto uno dei miei motti prediletti è “Un Dio, una Donna, una Patria”! Mi dispiace solo che a sottoscrivere l’atto sia stato Romano Prodi, personaggio che non ho mai gradito. Ma purtroppo Zio Benito non era disponibile…

Tutte queste persone, che negli anni hanno saputo e voluto accompagnare lo scandire della mia esistenza, sono sempre restate al mio fianco, e le ringrazio per questo. Persino ora che Stasia non c’è più, grazie a loro la sua presenza rivive e si propaga, lasciandoci il dolce e gustoso ricordo della memoria indelebile e del pensiero condiviso. E se per gioco e per vanteria, a chi mi chiede della longevità, spesso scherzando cito il vino o il cibo genuino, il mio cuore conosce, invece, la più originale e nuda delle verità: che a tutti loro, da miei genitori ai miei nipoti, da mia moglie ai miei figli, devo il dono di una vita lunga e fasta, scandita al tempo delle emozioni. Celebriamo, dunque, che 100 anni si fan una sola volta,ma prestiamo attenzione, “il nemico ascolta!”

Il vostro Nannino

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