Cultura

ALLA RICERCA DELLA NAPOLI SCONOSCIUTA: I TESORI DI UNA CITTÀ D’ARTE E DI STORIA

Napoli ha migliaia di anni di storia e potrebbe, solo per questo, costituire una meta ambita del turismo internazionale, ma le testimonianze di un glorioso passato giacciono in gran parte sepolte e, quando riscoperte, vengono abbandonate preda di ladri e vandali e rimangono sconosciute agli stessi napoletani.

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Potremmo citare infiniti esempi ma ci limiteremo a quanti possono contare le dita di una mano, seguendo un criterio cronologico che, partendo da 5000 anni fa, giunge ai nostri giorni.

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Vi è una Napoli antica che, molto prima che i Greci fondassero Palepolis, ha lasciato le sue tracce in vico Neve, nel cuore dell’odierna Materdei, con una serie di tombe neolitiche.

Nel 1950, all’altezza del civico 30, durante lavori di costruzione di un edificio, furono casualmente rinvenute due cavità artificiali “a forno”, due tombe preistoriche nelle quali vi era ancora un corpo quasi integro rannicchiato, cinque vasi intatti ed un pugnale di bronzo.

 

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Gli archeologi datarono a cinquemila anni fa, quando, dove oggi vi sono vicoli brulicanti di vita, erano accampati gli Osci, che costituivano la cosiddetta cultura del Gaudo ed avevano il loro epicentro a Paestum.

Oggi è tutto scomparso senza lasciare tracce e senza alcun rispetto per i nostri Penati: infatti, lì dove erano tombe e reperti, ora troneggia un orto coltivato con cura da un contadino ottantacinquenne.

 

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Delle esibizioni canore dell’imperatore Nerone nel suo teatro, a due passi dall’Agorà, abbiamo già parlato diffusamente a pag.80 del 1° tomo del nostro “Napoletanità, arte, miti e riti a Napoli”, al quale rinviamo (consultabile in rete). Ritorniamo sull’argomento per segnalare che qualcosa si muove e nuovi scavi stanno facendo affiorare antiche strutture del teatro dove il celebre personaggio amava recitare accompagnandosi con una cetra.
Cosa lega i “bassi” di Napoli a Nerone? Era lì il teatro in cui debuttò l’imperatore romano che amava recitare. Finora solo una porzione è visibile, come spuntata per miracolo fra gli altri caseggiati che lo circondano, ma a breve ricominceranno gli scavi ed entro il 2016 avremo una visione più completa.

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Riportare alla luce quello che tutti chiamano “il teatro di Nerone” è particolarmente difficile proprio perché, a cominciare dai Greci, che qui avevano l’acropoli e l’Agorà, tutti si sono insediati in questi vicoli. Non c’è casa che non nasconda in un vano sotterraneo qualche traccia del teatro. La “media cavea”, il settore centrale dell’edificio, è stata riportata alla luce con relativa facilità perché spuntava da uno spazio libero diventato discarica. Se ne conosceva l’esistenza dall’Ottocento ma solo nel 2004 il Comune e la soprintendenza sono intervenuti insieme per acquisire locali tutt’intorno ed eseguire una ricerca sistematica, disegnando quella che era l’estensione originaria: un edificio che poteva ospitare circa 5000 spettatori.

 

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Quanto oggi è visibile comprende uno spicchio della “media cavea”, tre gradini della sottostante “ima cavea” ed i grandiosi vani di accesso. Si entra da via San Paolo e si prosegue nel cortile di un palazzo cinquecentesco per sbucare infine all’aperto dove ci sono le gradinate. Tutto intorno, tracce di marmi colorati, di affreschi e resti riconducibili a scuderie, cisterne, tipografie, forni: vecchie e nuove botteghe che si sono avvicendate tra via San Paolo e vicolo dell’Anticaglia. «E’ uno di quei monumenti attraverso il quale si può leggere gran parte della stratificazione edilizia partenopea. Secondo il progetto di recupero il teatro non verrà isolato da quanto è stato costruito intorno; cortili, archi, soffitti, resteranno a testimoniare l’evoluzione di un intero complesso urbano, con uno scopo ambizioso: riqualificare il centro storico e consentire agli abitanti di riappropriarsi della storia del quartiere e della città».

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Per tutti questo è il teatro di Nerone (al potere dal 54 al 68 dopo Cristo). Ma lo è davvero? Le fonti letterarie concordano nel collocare a Napoli la prima esibizione in pubblico dell’imperatore, che interpretava brani di tragedie accompagnandosi con la cetra. Aveva scelto per il suo esordio questa città perché manteneva tradizioni greche e vi si apprezzava chi preferiva arte e musica alle guerre di conquista, lontano dai severi senatori dell’Urbe che ritenevano poco virile l’educazione ellenica per i giovani romani, e ancor di più le esibizioni sul palcoscenico dell’imperatore. L’edificio in corso di scavo però non è quello che ospitò Nerone perché le tecniche edilizie e le ceramiche risalgono a qualche decennio più tardi. Tuttavia «non si può escludere l’esistenza di un edificio precedente, forse di dimensioni più ridotte e con un diverso orientamento».

I prossimi interventi riguarderanno uno scavo di circa sei metri per raggiungere il piano dell’orchestra e, grazie ad espropri di ambienti che si affacciano di fronte ed a lato della cavea, si potrà ritrovare ciò che si è conservato della scena originaria. Il “fronsscenae” era una quinta prospettica rivestita di marmi colorati che comprendeva nicchie e statue. Di sicuro i materiali pregiati saranno stati asportati già anticamente ma, in passato, è stato ritrovato un bel capitello e «dalle nuove ricerche potrebbero emergere ulteriori elementi architettonici delle decorazioni».

Un’altra struttura teatrale misconosciuta è sita a Posillipo, in proprietà privata, e, nonostante sia perfettamente conservata, nessuno può visitarla. Una rarità archeologica negata alla fruizione. Quanti napoletani conoscono la misteriosa Grotta di Seiano o hanno mai sentito parlare del grandioso teatro della Gaiola?

Solo da qualche anno la grotta è stata restaurata ed i visitatori hanno così potuto riscoprire l’intatta bellezza della Cala di Trentaremi, la suggestione del percorso nella penombra della cripta fino alla luce della verdeggiante valletta della Gaiola, l’imponente mole del teatro, il paesaggio straordinario del golfo che si domina dal porticato accanto all’Odeon.

Un altro percorso affascinante è costituito dalla parte sottostante alla chiesa del Purgatorio ad Arco, ricca di dipinti barocchi, dedicata al culto delle anime del Purgatorio.

Questo è probabilmente l’edificio napoletano più affascinante e misterioso del centro antico, riconoscibile per la presenza, davanti alla facciata principale, di tre teschi in bronzo intrecciati, come da tradizione, con altrettante coppie di tibie (il quarto fu rubato e mai più ritrovato agli inizi del secolo scorso), sistemati su quattro paracarri di pietra.

Importanti sono i tesori contenuti nel sottostante ipogeo: un’area cimiteriale del XVII secolo dove sono conservati teschi, ossa, nicchie sepolcrali ed antiche sepolture nella terra, oltre ad un’innumerevole quantità di “ex voto”, cioè lettere ed oggetti vari lasciati in dono, per esaudire una richiesta o come ringraziamento per una grazia ricevuta. E non mancano, tra questi, le richieste di suggerimenti molto più prosaici di numeri da giocare o da suggerire nel sempre popolare gioco del Lotto. L’itinerario serale, indubbiamente all’insegna della fugace e labile frontiera tra religiosità e superstizione e tra fede e credenza popolare, non potrà che avere il suo massimo motivo d’attrazione nella cosiddetta Terrasanta, cioè il terreno dove venivano seppelliti i defunti in attesa del Paradiso. Vi domina, in un loculo appena illuminato, il piccolo teschio, coperto da un velo nuziale, della giovane Lucia D’Amore, figlia del principe di Ruffano Domenico D’Amore, morta nel 1798 in un naufragio abbracciata al suo sposo, il marchese Giacomo Santomago, o deceduta, più banalmente, di tubercolosi.

Quella che in dialetto è stata battezzata come la “capuzzella”, e che si presenta adagiata su di un cuscino color avorio, ha ricevuto nei secoli gli omaggi, soprattutto femminili, di quante vorrebbero veder soddisfatte le proprie ansie amorose, più o meno consacrabili in un matrimonio. E li riceve ancora oggi, vista la gran quantità di candele accese e di fiori freschi di cui è omaggiata (nonostante il divieto di onorare i resti umani “ignoti” decretato dal tribunale ecclesiastico negli anni Sessanta). Un tuffo nella religiosità e nella superstizione, ma anche nella storia visto che la Chiesa delle Anime del Purgatorio contiene resti e stemmi delle più importanti famiglie nobili di Napoli, dai Mastrilli, che la fecero costruire, ai Carmignano, i Caracciolo ed i Muscettola.

La chiesa della Scorziata, in vico Cinquesanti, è dedicata alla presentazione di Maria al Tempio. Fu fondata con annesso conservatorio nel 1579 da tre nobildonne napoletane, Giovanna Scorziata e Lucia ed Agata Paparo.

Nel XVIII secolo il complesso fu oggetto di rifacimento che le conferì l’attuale aspetto e nel XX secolo fu affidato all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento all’Avvocata
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Già dal 1993 tante le devastazioni ed i furti all’interno della chiesa, dove furono razziate opere d’arte di gran valore.

In alto, sull’altare in totale degrado, che un tempo doveva ospitare l’immagine di una Vergine, s’erge l’icona dipinta di una donna. Una figura inquietante, il ritratto di una ragazza seduta, ricoperta di abiti ottocenteschi, nello sguardo un che di diabolico, i capelli corvini, il seno nudo ed un crocifisso nero tra le dita. Un’icona che si staglia su un enorme drappo all’interno del semidistrutto Sacro Tempio della Scorziata, una delle tante chiese negate del centro storico di Napoli. L’opera è stata installata diversi giorni fa e porta la firma di Zilda, noto streetartist di Rennes, considerato il “Bansky francese”. Lo stesso Zilda, già presente a Napoli con diversi “graffiti“ tra piazza Bellini e Santa Chiara – oggi distrutti o rimossi dal maltempo – ha confermato che l’opera è la sua e che si tratta di una rielaborazione del quadro “Meditazione” di Francesco Hayez.

Si svela così l’enigma legato ad un recente raid nella Scorziata da parte di alcuni giovani stranieri. L’allarme era scattato lo scorso 21 gennaio quando due ragazzi avevano chiesto aiuto a carabinieri e polizia dopo che un gruppo di “strani turisti” s’era intrufolato nell’edificio con telecamere e macchine fotografiche. Il gruppo era composto da quattro ragazzi ed una ragazza, d’origine francese.
Gli intrusi nel monumento alle spalle di piazza San Gaetano, già devastato da un incendio il 17 gennaio 2012, avevano dunque “fini artistici” e non erano né predatori d’arte, né satanisti. Anche all’esterno della chiesa, sulla cancellata, è stato appeso un ritratto di donna, più piccolo di quello all’interno, alla cui base è stato avvolto un drappo verde. Un’altra immagine straniante, il cui significato è tutto da interpretare.
Un tentativo, forse, di dare un po’ di “colore” ed una briciola di senso ad un luogo d’arte lasciato nella più vergognosa distruzione da più di trent’anni, con infiltrazioni d’acqua ovunque, macerie sparse al suolo, ed alle cui spalle si ergono le rovine di un ospizio per anziani abbandonato durante il sisma dell’80. Un regno di devastazione capace, ad ogni modo, di far restare ancora a bocca aperta.

A lasciare stupiti non c’è solo il dipinto sull’altare ma, soprattutto, vi è un affresco raffigurante la Crocifissione di Cristo, ritratto in mezzo alla Madonna e San Giovanni dolenti, d’autore ignoto, che sta letteralmente scomparendo nell’umido e pericolante ipogeo della chiesa.
L’edificio della Scorziata è forse l’emblema del degrado nel centro storico. Nonostante questo, nessuno ha pensato di andare a guardare o a salvare quell’immagine antica che potrebbe raccontare un’altra storia di Napoli, fatta d’arte antica, ben prima dell’avvento dei moderni streetartist.

Concludiamo questa carrellata giungendo ai nostri giorni, quando un’antica spezieria, dovendosi trasferire a Soccavo, dopo essere stata per secoli punto di riferimento per i malati della Sanità, è costretta ad abbandonare i preziosi arredi e non trova nessun ente che li accetti per preservarli, nemmeno regalati.

Un accorato appello del titolare è stato raccolto dalle pagine de “Il Mattino” e Piero Treccagnoli, in un articolo, ha ripercorso la storia gloriosa della bottega: «Ne hanno visto passare di ammalati e anime sofferenti, mamme in lacrime e giovani donne che assistevano parenti allettati. Se gli arredi della farmacia di Fra’ Nicola a via Stella, laddove la Sanità sta per sfociare a Santa Teresa degli Scalzi, potessero parlare ne verrebbero fuori dei romanzoni popolari.

Le scansie, le vetrate, gli specchi, i marmi hanno custodito prima, per decenni, i segreti degli speziali, sciroppi, piante officinali, estratti chimici, poi hanno ospitato le asettiche confezioni di Aspirine e Maalox. E ora devono essere rimossi. L’antica spezieria, da decenni moderna farmacia, ma con una cornice d’epoca che mette ancora un po’ soggezione, si trasferisce.

Per il piano di decentramento regionale si sposta a Soccavo, da un quartiere che si va spopolando a uno più popoloso, dal centro alla periferia. I mobili appartengono al farmacista, Luciano Attanasio, che li ha acquisiti, insieme al titolo dell’attività sanitaria, un quarto di secolo fa, quando è subentrato ai vecchi speziali. «Ma ora mi è impossibile portarli via, non saprei come utilizzarli», spiega il dottore. E allora? «lancio un appello». Prego. «Invito un ente pubblico, istituzionale, a prenderli gratuitamente e a collocarli in un ambiente adeguato». Un museo? «non solo».

In un museo, magari in un’università, non ci starebbero male. Anzi. Gli arredi della Fra’ Nicola dal 1997 sono vincolati dal ministero dei Beni Culturali per il «loro valore documentario» e per l’«eccezionale interesse artistico e storico». I mobili ricoprono tre della quattro facciate del locale. Sono in mogano con particolari decorativi in bronzo dorato. Anche il banco di vendita è un pezzo d’antiquariato: ha una sottile balaustra intagliata e un piano sempre in mogano e marmo bianco. «Abbandonarli sarebbe impossibile e anche un delitto contro l’arte».

Questo piccolo tesoro di falegnameria risale alla seconda metà del Settecento. E, come racconta la relazione di vincolo della Soprintendenza, provenivano dalla Spezieria del convento di Santa Teresa degli Studi. Il locale, al civico 102 di via Stella, notissimo ai residenti, è stato adibito a farmacia dai primi decenni dell’Ottocento, al tempo del re Borbone. Apparteneva ai monaci e diventò il punto di riferimento per i sofferenti, sostituendo la Spezieria, scomparsa con l’abolizione degli ordini religiosi. Gli arredi provengono proprio dall’antico convento, grazie a un contratto, stipulato nel 1883 tra i carmelitani di San Francesco di Paola e gli affittuari di allora.

Fino agli anni Settanta, la Fra’ Nicola era condotta proprio da frati. Gli ultimi sono stati fra’ Gennaro, vero e proprio farmacista con tanto di laurea, e il suo aiutante, frate Alfonso. Una loro foto è conservata amorevolmente da Attanasio che l’ha decorata con la coroncina di un rosario. «Li ho sempre tenuti qui con me» confessa. «Questa loro foto la porto a Soccavo dove, tra qualche giorno, i nuovi locali saranno già pronti e potrò quindi trasferirmi». I tempi per salvare gli arredi che, sempre secondo la relazione della soprintendenza, «rappresentano un interessante esempio di artigianato locale in stile Impero», stringono. «Diciamo che abbiamo tempo fino a fine mese» chiarisce il dottore. «Chi vuole non perda tempo, si faccia avanti». Anche il pavimento, marmo raro ormai introvabile, andrebbe salvato. Potrebbe essere più difficile collocarlo, ma è anch’esso un pezzo della storia del quartiere Stella. Chissà quanti passi incerti, frettolosi e ansiosi, l’avranno calpestato, cercando e aspettando un rimedio che scaturisse da quelle scansie, alleviando il dolore di un giorno o di una vita».
Achille della Ragione
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