Officina delle idee

CASA CIRCONDARIALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE : L’ESPERIENZA DEL CARCERE

Questo breve scritto costituisce il resoconto di un anno di attività come consulente psichiatra nell’istituzione carceraria, presso la Casa Circondariale di S. Maria C.V., esperienza che si è andata costituendo all’indomani della emanazione del DPCM 01/04/2009, che ha trasferito le competenze sanitarie dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale.

Si caratterizza allora come un primo provvisorio momento di riflessione su questo “travagliato” passaggio ed intende offrire un contributo di valutazione e di analisi della condizione carceraria, sebbene vista da uno specifico osservatorio, dal punto di vista rappresentato dal “caso particolare” delle problematiche di salute mentale in una singola istituzione carceraria. Sebbene il ruolo di consulente assuma una connotazione specifica, quella di essere cioè una figura di supporto all’istituzione con un impegno orario limitato, nel nostro operare abbiamo inteso rappresentare la operatività e gli stili di lavoro che ormai da tempo caratterizzano il DSM della ex ASL CE/2. Di certo abbiamo rappresentato il punto di vista di persone che da sempre hanno orientato il loro agire nell’ottica basagliana della deistituzionalizzazione:“…. il male oscuro della psichiatria sta nell’aver separato un oggetto fittizio, la”malattia”, dalla “esistenza complessiva dei pazienti e dal corpo della società”. Su questa separazione artificiale si è costruito un insieme di apparati scientifici, legislativi, amministrativi (“l’istituzione”, appunto) tutti riferiti alla ” malattia “. È questo insieme che occorre smontare (deistituzionalizzare) per riprendere contatto con quella esistenza dei pazienti, in quanto “esistenza” malata…….”  In ogni caso l’analisi dei vissuti legati a questa esperienza, al di là di ogni pretesa di scientificità, può costituire una opportunità di discussione tesa al miglioramento ed alla umanizzazione dell’assistenza psichiatrica in carcere, nell’ottica della implementazione di un sistema salute mentale di comunità. Prima di procedere ad una analisi sistematica dei dati raccolti, appare opportuno ricordare che la presenza dello psichiatra nel carcere è regolamentata dall’art. 11 della Legge 26 luglio 1975 n. 354, sull’ordinamento penitenziario, che testualmente così recita: ” Ogni istituto penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; dispone, inoltre, dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria………….. Nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso col rispetto delle norme concernenti l’assistenza psichiatrica e la sanità mentale……” Dunque la presenza dello psichiatra è motivata dalla necessità di rispondere ai bisogni di salute mentale dei detenuti nel pieno rispetto dei diritti individuali; peccato che quel “senza indugio” con cui ci si deve muovere in caso di sospetta malattia psichica possa prestarsi ad interpretazioni di carattere difensivo, tendenti più al controllo delle possibili conseguenze che ai veri bisogni delle persone recluse.

Quindi il primum movens rischia di essere quello di valutare la compatibilità con il regime carcerario ordinario e soprattutto la predittività di condotte che possano determinare “ danni” alle persone e conseguenti implicazioni di tipo medico – legale. Poco importa il reale stato di salute dei detenuti. Poco importa capire che dietro i sintomi c’è una persona con la propria storia di vita, con le proprie aspettative, con i propri fallimenti e con i propri drammi. Non vi è alcun dubbio che l’esperienza carceraria rappresenti un evento traumatico i cui effetti influiscono negativamente sulla salute delle persone ristrette: l’esclusione sociale e lo stress sono inclusi a pieno titolo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tra i ‘determinanti sociali della salute’, che è intesa come stato di completo ben-essere fisico, psichico,sociale e spirituale, e non semplice assenza di malattia . All’ingresso in carcere scompaiono le differenze individuali, le persone diventano detenuti, quindi tutti uguali. Il carcere ha una sua logica che non chiede di essere messa in discussione, va solo accettata, assimilata e dunque l’invito implicito è che per poter “sopravvivere” è indispensabile adattarsi: “..L’obbligo a chiedere, naturalmente, vuol ribadire una dipendenza, un dominio, un potere. Ma c’è dell’altro. C’è questa disseminazione quotidiana di spinte regressive. L’atto macchinale del ‘fare la domandina’ incorpora il moto regressivo e, domandina dopo domandina, si ridiventa bambini ”.3 Non appare superfluo ricordare qui la definizione di ‘carriera istituzionale’, così come descritta da E. Goffman: “….Gli individui vissuti a lungo all’interno di istituzioni totali, luoghi di ‘residenza e di lavoro di gruppi di persone che tagliate fuori dalla società… si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato’, divengono essi stessi istituzionalizzati,  ossia incapaci di concepire un modo di vita difforme da quello dell’istituzione. In ambito criminologico per indicare questo complesso fenomeno è stata coniata la definizione di Sindrome da prisonizzazione, intesa come conseguenza dell’esperienza carceraria sull’individuo che è costretto ad adattarsi al mondo informale penitenziario, tramite l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla cultura generale propri dell’istituzione carcere. Dall’analisi sistematica dei dati raccolti nella nostra casistica, un dato che subito si impone all’attenzione è che la richiesta di consulenza psichiatrica riguarda in maniera rilevante persone con storia di tossicodipendenza. Molto rappresentate in carcere sono le problematiche legate allatossicodipendenza che, come frequentemente avviene anche nella nostra pratica territoriale, giungono impropriamente alla attenzione dello psichiatra, soprattutto a ragione della erronea convinzione diffusa che la prescrizione di psicofarmaci, ansiolitici in particolare, sia una esclusiva prerogativa del nostro ambito disciplinare! Frequentemente sono gli stessi detenuti a farne richiesta. Troppo spesso così si è costretti ad un “ braccio di ferro “ con il richiedente, essendoci chiaro l’intento di far fronte con gli ansiolitici alla mancanza di sostanze stupefacenti, ben consapevoli del rischio di sostituire una dipendenza all’altra. Non spetta a noi rimarcare che l’inasprimento delle misure repressive poste in essere in questi ultimi anni, con la modifica della dose minima personale, abbiano fatto lievitare il numero dei carcerati per uso di sostanze stupefacenti e per reati ad esso connessi, al punto tale che oggi almeno il 25% della popolazione carceraria è composta da tossicodipendenti. Tra di essi assai elevato è il numero di migranti, nel nostro paese infatti è presente una massa crescente di extracomunitari detenuti che rappresentano circa il 30%dell’intera popolazione ristretta.

Nel carcere essi occupano il gradino più basso, con il minor poter contrattuale, ultimi tra gli ultimi. A vista d’occhio sono quelli più impiegati in carcere come lavoranti addetti alle pulizie. Non esiste un servizio di mediazione culturale e così le difficoltà di comunicazione rendono ancora più difficile l’inquadramento diagnostico anche per le difficoltà legate alle differenti modalità culturalmente trasmesse di espressione del disagio individuale. Il dato significativo però riguarda i disturbi d’ansia e i disturbi depressivi che rappresentano oltre il 50% del totale e sono rappresentati da quadri sintomatologici di chiara marca reattiva, talvolta preesistenti, ma più frequentemente secondari alle vicende personali che hanno determinato la carcerazione. Spesso la richiesta di consulenza da parte dei detenuti stessi maschera, sottende la necessità di avere uno spazio di riflessione ed elaborazione dei propri vissuti, che non può trovare ascolto nell’area psicologico – educativa, vista l ‘ esiguità del personale in servizio: solo 1 educatore per oltre 900 detenuti e 2 psicologi che sono impegnati soprattutto nella valutazione dei nuovi giunti. Lo stesso psichiatra, sommerso di richieste improprie, spesso espressione di una “medicina difensiva”, non può rispondere in maniera adeguata a questi bisogni. Occorre ammetterlo, non siamo in grado di sopperire con il nostro impegno a queste carenze, a dispetto del fatto che pilastro centrale dell’agire psichiatrico sia proprio la dimensione dell’ascolto. Ma sempre in giro per i reparti alla ricerca dei detenuti da “visitare”, non riusciamo ad esserci. Il rischio che si corre è quello di istituzionalizzarci anche noi, non vedendo così più persone, ma casi, cercando di individuare quelli da poter escludere al nostro sguardo. Del resto il pregiudizio che domina la scena è “…sono tutti simulatori alla ricerca di un qualche beneficio…….qui hanno la migliore assistenza sanitaria possibile…..fuori invece……”.Quello che in maniera evidente appare dalla letture dei dati raccolti è che le diagnosi afferenti all’area psicotica, vero terreno di lavoro di una psichiatria che voglia dirsi salute mentale comunitaria, sono invece quelle numericamente  meno rappresentate, riguardano poco più di una decina di pazienti detenuti. Ma è il sospetto della malattia mentale, “imprevedibile e pericolosa”, a tenere la scena, a determinare le richieste di consulenza psichiatrica. E purtroppo la risposta che viene data alle problematiche di salute mentale in carcere è del tutto simile a quella data ad atti di non aderenza alla disciplinacarceraria: dunque i pazienti psichiatrici sono equiparati ai ribelli. In tutti i casi che appaiono essere “pericolosi per sé o per gli altri” vi è ilricorso al regime di isolamento, che se in prima battuta in genere è disposto  dal medico di guardia, la sua cessazione o riproposizione sono però demandate allo psichiatra, che dunque si trova ad assolvere ad una “funzione normativa” regolamentata dall’Amministrazione Penitenziaria che scandisce la vita istituzionale : dunque lo psichiatra rischia di diventare di fatto “cinghia di trasmissione”, inconsapevole artefice del controllo sociale nella macchina penitenziaria. La posizione dello psichiatra in carcere appare davvero paradossale “deve curare”: ma viene da chiedersi la cura è veramente possibile in un’istituzioneche è preposta a “sorvegliare e punire”?. Quello che è stato il portato delle lotte antistituzionali, il rifiuto della delega al controllo sociale, in carcere è ancora prassi quotidiana.  In quest’anno di attività con un atteggiamento proattivo, si è riusciti a non inviare alcun detenuto all’osservazione psichiatrica presso il Carcere di Secondigliano o peggio in OPG. E’ stato un lavoro duro, dovendo contrastare le modalità di allontanamento del “problema” che negli anni passati costituivano prassi abituali. Un ultimo argomento scottante è la richiesta routinaria di consulenza psichiatrica in caso di sciopero della fame, dietro il quale si paventa quasi sempre l’esistenza di disturbi psichiatrici.

Molte sono le suggestioni derivanti dalla esperienza di quest’anno di impegno nel carcere, molti gli spunti per possibili ambiti di ricerca sul rapporto carcere – salute. Un primo start è rappresentato dalla necessità di approfondire l’analisi delle conseguenze psicologiche della privazione di libertà, magari partendo dall’analisi della già copiosa letteratura esistente sull’argomento.

Un altro ambito di ricerca è rappresentato dal rapporto salute mentale e controllo sociale. La riflessione su questo tema prende le mosse dalla considerazione che tramontata l’epoca del grande internamento,alla singola istituzione totale(manicomio, carcere) è andato sostituendosi un circuito di agenzie deputate al controllo sociale,basato sul fenomeno del “revolving door”,dei rinvii, degli interscambi e delle migrazioni da una istituzione all’altra. Dunque un singolo dispositivo istituzionale va studiato nelle connessioni con altri dispositivi che insieme concorrono all’esclusione sociale. Indispensabile allora diventa lo studio delle relazioni che intercorrono tra il circuito della salute mentale con le altre istituzioni, in primis il carcere, che si affiancano allo status di malato mentale, ma anche tra le istituzioni e le persone. Queste sono le premesse di una ricerca in corso promossa dall’Associazione Saman, tesa ad approfondire appunto gli aspetti degli attuali sistemi di controllo della popolazione con problemi di salute mentale. Un’ulteriore filone di ricerca potrebbe essere rappresentato dai gesti di autolesionismo e dai tentativi di suicidio, come modalità espressiva di corpi incarcerati . I gesti autolesivi più frequenti sono quelli di tagliarsi o cucirsi parti del corpo, ingoiare fondi di barattolo, aghi e siringhe. Il simbolismo sotteso a queste azioni è evidente: “… illustrare sulla propria pelle le cuciture, i tagli che ilcarcere comunque iscrive sui corpi reclusi, rendere visibile il malessere già esistente..”

Nei primi periodi di carcerazione i casi di autolesionismo sono rari, circa 9 casi su 100, tendono poi ad aumentare con il tempo trascorso in carcere. Troppo spesso il fenomeno viene banalizzato come tentativo da parte del detenuto teso ad ottenere vantaggi personali ( cambio di cella, colloqui con la famiglia,con il giudice, trasferimento ad altro carcere…), fenomeno che sicuramente è presente, o altrimenti è recepito come espressione di malattia mentale conclamata, da curare e soprattutto da isolare perché “pericolosa”. Mai ci si pone il dubbio problema che possano essere solo modalità di espressione individuali del disagio. Per tentato suicidio, autolesionismo o piercing si rischia la sanzione del Consiglio di disciplina, che può essere rappresentata da un semplice richiamo,ma anche dall’esclusione dalle attività, dall’isolamento. E il tutto entra, naturalmente, nel proprio ‘fascicolo’., con conseguente allungamento della pena, perchè il periodo in isolamento non è computato nel calcolo della durata della pena da scontare, oltre che determinare la perdita dei benefici connessi alla legge Gozzini ( buona condotta). Sempre comunque i detenuti autolesionisti sono inviati allo psichiatra, cui si chiede di valutare la reale intenzione suicidaria sottesa. “I gesti autolesivi, al contrario, sono culturalmente modellati perchè nel mondo interno della reclusione essi si replicano da tempi immemorabili e questa replicazione si trasmette di bocca in bocca come una suggestione e unmodello”10.. La convinzione invece è:“….Il detenuto che si uccide o che tenta di uccidersi, non è ‘normale’ perché malato di mente, oppure è un detenuto ‘ribelle’ che compie un gesto di insubordinazione per attirare l’attenzione, per protestare contro l’ingiustizia oppure per vendicarsi delle ‘prepotenze’ subite in carcere”. Dunque l’opinione diffusa, il pregiudizio imperante è che il gesto autolesivo o il tentato suicidio sia sempre espressione di una devianza psichica: si da per scontato che una persona normale non può mai pensare di darsi morte, come se solo nella storia personale di malattia e non anche nell’ambiente, nella situazione in cui la persona si trova si possa ritrovare il motivo del gesto. In alternativa i gesti autolesivi vengono trattati come una forma di illegittima forma di protesta, o peggio di una simulazione teatrale che comunque finisce per essere controproducente per chi lo mette in scena. Anche la lettura delle circolari dell’Amministrazione Penitenziaria ci indica appunto la tendenza ad inquadrare il suicidio come un comportamento deviante, espressione sempre di patologia mentale, che trasgredisce il diritto/dovere alla salute che è regolamentato dallo stesso art. 11, che indica e dispone come obbligatorie lecure sanitarie per la salute del detenuto, indipendentemente dalle richieste e dalla volontà del diretto interessato. Va a questo punto rimarcato che ” oltre la metà di coloro che si tolgono la vita, lo fanno nei primi sei mesi di reclusione, spesso di prima reclusione, a dimostrazione del fatto che la causa principale è rappresentata dall’impatto brutale con un universo sconosciuto, con le sue gerarchie informali, con le sue regole ignote, con la sua logica indecifrabile. Infine, c’è una correlazione stretta tra frequenza dei suicidi e istituti particolarmente sovraffollati. Da tutto ci viene la conferma che il carcere costituisce un luogo che produce sofferenza ed alienazione, solitudine e morte.

Lo psichiatra in carcere si presta dunque ad assumere un ruolo ambivalente ed ambiguo, quello di una sorta di “deus ex machina” che se vuole può “ cambiare” la vita delle esistenze escluse che a lui si rivolgono. E’ lui che decide se una persona può uscire dal regime di isolamento. E’ lui che decide se il “ blindato “ la notte debba essere chiuso. E’ lui che può decidere il “ cubicolo”, la cella per una sola persona che può essere il premio per una malattia mentale e permettere una privacy degna di un uomo, mentre i sani sono tenuti a stare in 4-6-8 persone . Ma è lui che se diagnostica una malattia mentale seria, manda il pazientedetenuto alle “celle lisce”, dove diventa l’ultimo tra gli ultimi, nell’istituzione carcere che così com’è non serve a creare uomini nuovi, ma a tenerli rinchiusi ed esclusi per un po’ di tempo, in attesa di uscire per poi – nella gran parte dei casi – tornare a delinquere.

 

E’ evidente che il nostro contributo non può e non vuole limitarsi alla denuncia dei fatti, ma essere consapevolmente propositivo. Dobbiamo avere il coraggio di comprendere quanto sia anche nostra la responsabilità di aver lasciata sola l’istituzione carceraria nella gestione delle problematiche di salute mentale delle persone ristrette. Non vi è alcun dubbio che, tutti presi nella difficile applicazione della legge 180 e soprattutto nella periodica sua difesa, ci ha fatto gioco che la salute mentale in carcere sia stata gestita in piena solitudine ed autonomia dall’amministrazione penitenziaria, specialmente per quel che riguarda il mostro giuridico – sanitario rappresentato dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il passaggio delle competenze sanitarie del carcere al S.S.N. ci impone ora finalmente di dovercene fare carico. Dunque vanno affrontati con competenza e responsabilità le questioni emergenti. Lavorare nella deistituzionalizzazione dovrà comportare la presa in carico delle persone ristrette con problematiche di salute mentale, garantendo uno stretto contatto con le UOSM di appartenenza territoriale, onde pensare a modulare gli interventi tesi ad un loro affidamento alla avvenuta scarcerazione. Si dovrà far da tramite in modo che vi sia già da subito una presenza in carcere di operatori di riferimento territoriale. Si dovrà mantenere l’atteggiamento proattivo finora tenuto, nell’intento di ad evitare ove possibile l’invio all’OPG, assumendo un atteggiamento psicoterapico-riabilitativo, in stretta collaborazione con l’area psicologico-trattamentale, che resta ancora incardinata nell’Amministrazione Penitenziaria. Lo psichiatra deve passare dal ruolo “risolutore di problemi” a “ fomentatore di opportunità”. Si dovrà favorire dunque la costituzione di cooperative sociali, vere imprese sociali in grado di contrastare la tendenza alla recidiva penale, con l’offerta di concrete prospettive lavorative all’uscita del carcere. In questo senso potrebbe essere utile progettare percorsi di formazione-lavoro in collaborazione con i  vari attori territoriali( Regione, Provincia, ASL) al fine di creare già in carcere attività produttive.

Ancora, appare indispensabile favorire la nascita di gruppi di discussione e di auto-aiuto, anche al fine di offrire un contenitore ove poter elaborare i vissuti individuali connessi alla carcerazione. In stretta sinergia con l’ amministrazione penitenziaria si dovrà mettere in campo un lavoro teso all’individuazione delle criticità emergenti ed alla elaborazione di strumenti operativi tesi alla prevenzione dei suicidi, anche attraverso protocolli e linee guida che devono vedere al primo posto la formazione degli operatori.

Dott. Giuseppe Ortano

 

 

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