Approfondimenti

DOMENICA 7 MAGGIO , 33° VISITA GUIDATA ALL’INGRESSO DEL MUSEO DI SAN MARTINO: PRESENTAZIONE DEL LIBRO “ISCHIA ,L’ISOLA DELL’INCANTO “

Tutto parte nel 1972 quando a settembre mi laureo (fig.1), 108/110, in tempo per gli esami di abilitazione alla professione e per iscrivermi alla specializzazione in ostetricia e ginecologia. Avrei voluto preparare una tesi in parapsicologia, un argomento in cui ero molto preparato, ma ascoltai il consiglio del professor Califano di presentare uno studio sperimentale in clinica medica. Scelsi di approfondire una rara forma di anemia emolitica di cui era affetta mia madre.
Del professor Califano,e a lungo preside della facoltà, serbo un piacevole ricordo, perché fu l’unico trenta e lode della mia carriera universitaria corroborato dal fatidico bacio accademico. A volte l’abbraccio vigoroso di un luminare, rinforzato da parole di apprezzamento, vale ben più di un bacio appassionato della più bella e ricercata top model. Dovranno passare oltre dieci anni per riprovare, in una facoltà diversa, quella di lettere, la stessa ebbrezza accademica, grazie al caloroso bacio… di Vallone, il celebre italianista, che si complimentò per il mio esame: “Lo studente più preparato che abbia incontrato in quaranta anni di insegnamento”. Lo studente era però già un professionista affermato in ben altra branca con moglie e tre figli a carico. Nel 1976 mi specializzai in Ginecologia (fig.2), nel 1981 in Chirurgia Generale (fig.3). Ho conseguito vari riconoscimenti in campo senologico (fig.4), una branca praticata per oltre 20 anni nel mio centro, Senos, dotato di mammografo, diafanoscopio ed ecografo con sonde particolari. Ho scritto un atlante di semeiotica mammaria e diagnosticato  centinaia di casi di cancro nella fase iniziale, salvando la vita a tante donne.Ancora prima di laurearmi misi su un giornale medico, Il polso, il seguente annuncio: “Medico neolaureato massima votazione offresi incarico ospedaliero”. Mi risposero numerosi nosocom i(erano altri tempi), uno soltanto in Campania a Cava de’Tirreni. Mi presentai dal primario Clarizia e gli confessai candidamente: “Non so fare niente”, “Non ha importanza, serve qualcuno che compili le cartelle, il resto lo imparerai poco alla volta”. Ebbi subito il posto di assistente a tempo pieno, 492000 lire al mese.
Contemporaneamente facevo guardie notturne retribuite al Policlinico, dove  mi aspettava una brillante carriera di professore.
Tra i colleghi che mi sono più cari voglio ricordare Francesco Galano ed Edoardo Oreste, compagni di lavoro a Cava e coautori in alcuni miei studi sperimentali (fig.5), Rosario Pignalosa e Michele Spirito, medico ad honorem, per anni  fedeli collaboratori nel mio studio, Gino Langella con cui ho diviso in egual misura bagordi e traversie giudiziarie, Luciano Greco, a cui è affidato il mio cuore malato, Antonio Gallo, celebre urologo, Antonella Sepe, assidua frequentatrice dei mie salotti culturali e delle mie visite guidate e soprattutto Angelo Russo (fig.6), poco meno di un fratello, che da tempo ha lasciato questa valle di lacrime e che costantemente mi fa compagnia nei sogni.
Ho scritto per anni su numerose riviste di svariati argomenti; in particolare su “Contraccezione fertilità sessualità” di sessuologia e terapie farmacologiche.
Ho scritto numerose monografie e libri medici a carattere divulgativo. Ricordiamo:
“Moderne metodiche per provocare l’aborto” nel 1978.
“Parliamone con il ginecologo” (fig.7) nel 1982.
“La frigidità e la verginità nella donna” (fig.8)  nel 1993.
“Pianeta Donna” (fig.9), cinque edizioni dal 1984 al 1999 e 23.000 copie vendute.
Nel 1985 ho ideato un particolare apparecchio il vaginometro(fig. 10) di della Ragione per aumentare le capacità orgasmiche femminili (fig.11– 12).
Nel 1992 ho realizzato, sperimentato in ambiente ospedaliero e pubblicato su riviste italiane e straniere, una metodica farmacologica per indurre l’aborto senza ricorrere all’intervento chirurgico (fig.13–14).Ma vogliamo raccontare l’avventura dal principio?
Correva il 1972, l’anno della mia laurea in Medicina, ma soprattutto dell’incontro a Los Angeles con Karman, ideatore dell’aspirazione, una metodica rivoluzionaria che relegava per sempre nei libri di storia della medicina il famigerato raschiamento, terrore per generazioni di donne di tutto il mondo, le quali, in totale assenza di contraccettivi, erano costrette a sottoporsi più volte nel corso della vita ad una inutile tortura. Un metodo impregnato da un’onesta concezione filosofica: nei primi giorni di gestazione l’embrione, non possedendo una parvenza di sistema nervoso centrale, non ha acquisito pienamente la dignità di essere umano. Un argomento controverso in stridente contrasto con la dottrina della Chiesa, che ha sancito con un’apposita enciclica l’inizio della vita con la fecondazione.
(Invito chi volesse approfondire la questione a consultare su internet il mio saggio: ”Storia dell’aborto dall’antichità ai nostri giorni”.
Lo scienziato mi insegnò la tecnica e mi fornì in esclusiva per l’Italia il materiale per eseguire il rapido (40-50 secondi) intervento che non richiede anestesia e viene percepito dalla donna come una sensazione simile al dolore mestruale.
Dopo qualche anno vi fu un altro incontro decisivo con Adele Faccio, fondatrice del Cisa, un’organizzazione la quale, mentre erano ancora da noi in vigore le norme del codice Rocco, che consideravano l’interruzione volontaria della gravidanza un’esecrabile reato contro l’integrità della stirpe con pene severissime anche per la paziente, si adoperava per aiutare tutte le donne che non potevano pagare le salatissime parcelle dei cucchiai d’oro.
A Napoli imperavano ed imperversavano Monaco ed Ammendola con onorari di 600.000–700.000 lire, mentre il Cisa richiedeva una semplice offerta a chi poteva e voleva pagare, massimo 50.000 lire.
Divenni il punto di riferimento del Cisa ed anche dell’Aied, che organizzavano pullman e voli charter da tutta Italia verso il mio studio di via Manzoni. Migliaia di pazienti al punto che, nel 1978, potevo dichiarare ad un incredulo giornalista della Stampa sceso a Napoli per un’inchiesta: negli ultimi due anni ho eseguito 14.000 aborti (fig.15). Da quella mia incauta e spavalda (avevo trenta anni) dichiarazione, pubblicata in prima pagina a nove colonne sul quotidiano torinese e ripresa da tutta la stampa nazionale, sono originati tutti i miei guai giudiziari, unica consolazione aver favorito l’approvazione della legge 194, che stagnava nelle sorde e grigie aule parlamentari. Il fisco mi presentò una tassazione di un miliardo e mezzo per tre anni di attività professionale, mentre l’ospedale presso cui lavoravo mi licenziò in tronco, ma il tempo è stato galantuomo e, dopo una causa ultraventennale, prima il Tar e poi il Consiglio di Stato mi diedero ragione e condannarono l’Asl ad un risarcimento di 900 milioni.
Nel 1991 presso l’ospedale di Cava de’ Tirreni mettevo a punto una metodica farmacologica per provocare l’aborto associando alcuni prodotti noti alla farmacopea ufficiale per altre indicazioni. Anche allora grande tempesta e tutti contro, dal primario al direttore sanitario, dalla Asl alla magistratura, che sequestrò le cartelle cliniche e sottopose le pazienti a defatiganti interrogatori. Alla fine fu vietato ai farmaci di entrare in ospedale, io venni licenziato e la stampa osservò un rigoroso silenzio sulla vicenda, ad eccezione di alcune prestigiose riviste scientifiche straniere che pubblicarono la mia esperienza clinica.
Ancora oggi l’Italia, a distanza di oltre venti anni, è ancora uno dei pochi Paesi al mondo dove ancora non è stata introdotta una metodica farmacologica per indurre l’aborto.
Nel 1994 un disastroso infarto e dieci giorni in sala di rianimazione mi consigliarono di ridurre al massimo la professione ed a chiudere definitivamente con l’aborto. Occasione per poter dedicare il mio tempo alla scrittura, all’arte, agli scacchi (disciplina nella quale in pochi mesi divenni maestro).
A ventinove anni avevo pubblicato il mio primo libro (Moderne metodiche per provocare l’aborto), dopo erano seguiti altri volumi prevalentemente di divulgazione medica, ricordo in particolare la Frigidità nella donna, del 1992, nel quale portavo a conoscenza un apparecchio da me ideato per favorire l’orgasmo: il vaginometro.
Ora ho più tempo per pensare, studiare, scrivere.Il pronto soccorso di un ospedale è un porto di mare, anzi spesso è mare aperto, esposto a venti procellosi e a devastanti maree.In un piccolo nosocomio quale era quello di Cava de’ Tirreni, dove ho cominciato la mia carriera di medico, i casi gravi, i cosiddetti casatielli, era opportuno dirottarli altrove, nell’interesse dei pazienti, ma soprattutto dei colleghi reperibili, che potevano tranquillamente continuare a fare studio privato o a dormire a secondo dell’ora del ricovero. Si trattava unicamente di valutare la gravità del paziente e di convincere lui ed i parenti, sempre agitatissimi, che si faceva tutto nel suo esclusivo interesse, che lo avremmo volentieri curato, ma altrove sarebbe stato assistito meglio. Fratture scomposte, addomi acuti e crisi steno cardiche venivano inviate a Salerno, i casi ancora più gravi verso il Cardarelli. I giorni festivi si indirizzavano altrove anche le crisi asmatiche e tutta la patologia chirurgica che andava trattata con urgenza.
Quando io ero di guardia i colleghi reperibili delle varie branche potevano stare tranquilli.
Molto frequenti erano i casi di baldi giovanotti che rimanevano con l’uccello incastrato nella cerniera dei jeans e dopo alcuni disperati tentativi correvano impauriti in ospedale, spesso accompagnati dalla fidanzata in ansia quanto e più di loro. Bastava un colpo netto nel verso contrario all’apertura ed il batacchio era di nuovo libero, con meraviglia dell’interessato e focosi complimenti da parte delle accompagnatrici per lo scampato pericolo.
In un precedente articolo abbiamo raccontato dell’incontro scontro con un delinquente, che aveva da poco, in un alterco, sferrato uno schiaffo ad una vicina di casa lasciandole sul viso la traccia rossastra delle cinque dita.
La sventurata giunse esanime al ospedale e pochi minuti dopo, mentre la stavo soccorrendo, giunse il malvivente che cominciò a minacciare: “Guai a te se fai il referto, ti sparo in bocca”
Uno sguardo alle dimensioni corporee dell’individuo, alquanto modeste, mi diede coraggio e lo invitai ad uscire altrimenti avrei chiamato la polizia. Addirittura lo prendevo in giro. “ Ma se io non apro la bocca come fai?”.
Non l’avessi mai detto lo scellerato, mentre parlavo telefonicamente col commissariato, cominciò a sferrare calci agli infermieri ed a bestemmiare con colorita vivacità.
Trascorsi alcuni minuti giunge un agente, poco meno che sessantenne, il quale riconosce il furfante e prendendolo per un braccio cerca di portarlo fuori, ma scivola malamente e cadendo perde l’unico dente sul quale poggiava la dentiera.
Il malvivente continuava a sbraitare per cui, aiutato da Michele, un infermiere robusto ed ubbidiente, lo immobilizzai e, sotto la minaccia di un bisturi, lo costrinsi a più miti consigli. Chiamai di nuovo al commissariato chiedendo un intervento più efficace e spiegando che l’agente da loro inviato era stato costretto al ricovero.
“ Che dite facciamo subito intervenire delle pantere da Salerno”.
Dieci minuti ed in contemporanea polizia e carabinieri sono sul luogo del misfatto, impacchettano il delinquente e lo conducono in gattabuia.
Gli  infermieri ed i portantini in coro mi assalgono: “Dottore voi siete un pazzo, Totonno è da poco uscito dopo aver scontato venti anni per un duplice omicidio”.
Processo per direttissima, nessuno dei testimoni si presenta ad eccezione del sottoscritto, minacciato senza esito da un fratello dell’imputato, conferma della deposizione e quattro anni di pena, interamente scontati.
Il Mattino dedicò nove colonne all’episodio e i colleghi fecero una gigantografia che fu appesa alle pareti del pronto soccorso e per anni, quando sorgeva una controversia con i parenti degli ammalati, pane quotidiano in un pronto soccorso di frontiera privo di drappello, io invitavo prima di continuare la questione a leggere l’articolo e poi eventualmente decidere di continuare: un prodigioso antidoto per qualsiasi diatriba.Fra poco saranno trascorsi 40 anni dal mio ingresso come assistente incaricato nella divisione di Ostetricia dell’ospedale S. Maria dell’Olmo di Cava de’ Tirreni. Il tempo è volato senza che me ne accorgessi, era il 1973, mi ero laureato nell’autunno del 1972 ed ancor prima della tesi, attraverso un’inserzione sul giornale medico Il polso, mi ero offerto agli ospedali italiani: giovane laureato, ottima votazione (ancora non la conoscevo, sarà 108/110) esaminerebbe proposte di lavoro. Erano tempi felici, la disoccupazione tra i medici era ancora lontana ed ebbi numerose proposte, soprattutto da ospedali del nord, che mi offrivano, oltre al posto a tempo pieno, anche vitto e alloggio.
L’unica proposta in Campania venne dall’ospedale di Cava de’ Tirreni, ove mi recai a discutere col primario il dottor Clarizia, squisito gentiluomo d’altri tempi, al quale confessai che come medico non sapevo fare niente. “Non preoccuparti, all’inizio basterà che ti interessi della compilazione della cartelle, poi poco alla volta imparerai. Mi accompagnò dal direttore sanitario, il dottor Terracciano, burbero ma innocuo e dal presidente l’avvocato Clarizia suo cugino, i quali mi assicurarono che in pochi giorni avrebbero fatto un bando per un incarico da assistente e lo avrebbero tenuto segreto, in maniera tale che io fossi l’unico a presentare la domanda. In pochi giorni mi trovai assunto con uno stipendio di 492.000 mensili, per intenderci mia moglie, che insegnava matematica nei licei, ne prendeva 250.000.
Nel reparto non si praticavano interventi ginecologici più audaci del raschiamento diagnostico o della polipectomia, poiché il primario e l’aiuto, dottor Violante, non erano propriamente delle cime, ma poco più che dei mammani. La routine era costituita dai parti, 1 – 2 al giorno, che venivano espletati per la quasi totalità per via naturale, con le donne assistite dalle ostetriche, i medici intervenivano solo a mettere quattro punti di sutura se la ferita vaginale era irregolare. A volte, se necessario si ricorreva al rivolgimento podalico ed al forcipe,(manualità che oggi, in epoca di sfrenato ricorso al taglio cesareo, farebbero tremare un luminare). per cui le possibilità di apprendere per un giovane erano alquanto limitate. Nello stesso periodo lavoravo anche al nuovo policlinico da poco aperto a Cappella Cangiani, perché agli specializzandi era offerto un contratto e la possibilità di proseguire poi la carriera come assistente.
Anche lì le possibilità di imparare erano quasi nulle ed infatti quasi niente imparai, in compenso guadagnavo un secondo stipendio, che arrotondavo ulteriormente sostituendo i colleghi nei turni notturni, a tal punto che mia moglie, fresca sposa, si lamentava di passare più notti dormendo con la sorella che con il baldo quanto super impegnato marito. A Cava espletavo l’orario di 40 ore settimanali dal sabato pomeriggio al lunedì mattina, per non sottrarre tempo al mio studio privato che cominciava a funzionare a gonfie vele. Venivo adoperato prevalentemente come medico di guardia al pronto soccorso, che in un ospedale di provincia rappresenta una vera e propria trincea, un porto di mare, anzi spesso è mare aperto, esposto a venti procellosi e a devastanti maree. Il battesimo del fuoco avvenne durante l’epidemia di colera che colpì Napoli e la Campania nel 1973.
Ci erano pervenute alcune centinaia di dosi, ma la mattina in cui cominciarono le vaccinazioni la paura aveva contagiato talmente la popolazione che in fila si accalcarono non meno di cinquemila persone, che urlavano e spintonavano. I colleghi erano terrorizzati:”Cosa succederà quando dovremmo dire a questa folla inferocita che non possiamo proseguire?”. Ho rivissuto quella emozione mista a terrore, vedendo di recente alcune scene del film Contagio, nel quale, all’annuncio che a breve si sarebbero interrotte le vaccinazioni per esaurimento del farmaco, centinaia di persone invadono l’ospedale, dandosi ad atti vandalici e prendendosela con i malcapitati sanitari che vengono percossi ed insultati. Quel giorno a Cava non successe nulla del genere, perché mentre tutti erano paralizzati dal terrore, io ordinai alle infermiere di portare tutta l’acqua distillata e le soluzioni fisiologiche che avessero trovato e con quelle vaccinammo svariate migliaia di cittadini tra ringraziamenti e bacia mano. In un piccolo nosocomio quale era quello di Cava de’ Tirreni, dove ho cominciato la mia carriera di medico, i casi gravi, i cosiddetti casatielli, era opportuno dirottarli altrove, nell’interesse dei pazienti, ma soprattutto dei colleghi reperibili, che potevano tranquillamente continuare a fare studio privato o a dormire a secondo dell’ora del ricovero.
Si trattava unicamente di valutare la gravità del paziente e di convincere lui ed i parenti, sempre agitatissimi, che si faceva tutto nel suo esclusivo interesse, che lo avremmo volentieri curato, ma altrove sarebbe stato assistito meglio. Fratture scomposte, addomi acuti e crisi anginose venivano inviate a Salerno, i casi ancora più gravi verso il Cardarelli. I giorni festivi si indirizzavano altrove anche le crisi asmatiche e tutta la patologia chirurgica che andava trattata con urgenza. Quando io ero di guardia i colleghi reperibili delle varie branche potevano stare tranquilli. Molto frequenti erano poi i casi di baldi giovanotti che rimanevano con l’ uccello incastrato nella cerniera dei jeans e dopo alcuni disperati tentativi correvano impauriti in ospedale, spesso accompagnati dalla fidanzata in ansia quanto e più di loro. Bastava allora un colpo netto nel verso contrario all’ apertura ed il batacchio era di nuovo libero, con meraviglia dell’interessato e focosi complimenti da parte delle accompagnatrici per lo scampato pericolo. Un caso eclatante di cui si parlò a lungo fu l’incontro scontro con un delinquente, che aveva da poco, in un alterco, sferrato uno schiaffo ad una vicina di casa lasciandole ad imperitura memoria sul viso la traccia rossastra delle cinque dita.
La sventurata giunse esanime al ospedale e pochi minuti dopo, mentre la stavo soccorrendo, giunse il malvivente che cominciò a minacciare: “Guai a te se fai il referto, ti sparo in bocca”. Uno sguardo alle dimensioni corporee dell’individuo, alquanto modeste, mi diede coraggio e lo invitai ad uscire altrimenti avrei chiamato la polizia. Addirittura lo prendevo in giro: “Ma se io non apro la bocca come fai?”. Non l’avessi mai detto lo scellerato, mentre parlavo telefonicamente col commissariato, cominciò a sferrare calci agli infermieri ed a bestemmiare le divinità delle principali religioni monoteiste. Trascorsi alcuni minuti giunge un agente, poco meno che sessantenne, il quale riconosce il furfante e prendendolo per un braccio cerca di portarlo fuori, ma scivola malamente e cadendo perde l’unico dente sul quale poggiava la dentiera. Il malvivente continuava a sbraitare per cui, aiutato da Michele, un infermiere robusto ed ubbidiente, lo immobilizzai e, sotto la minaccia di un bisturi, lo costrinsi a più miti consigli. Chiamai di nuovo al commissariato chiedendo un intervento più efficace e spiegando che l’agente da loro inviato era stato costretto al ricovero. “Che dite, facciamo subito intervenire delle pantere da Salerno”.
Dieci minuti ed in contemporanea polizia e carabinieri sono sul luogo del misfatto, impacchettano il delinquente e lo conducono in gattabuia. Gli infermieri ed i portantini in coro mi assalgono: “Dottore voi siete un pazzo, Totonno è da poco uscito dopo aver scontato venti anni per un duplice omicidio”. Processo per direttissima, nessuno dei testimoni si presenta ad eccezione del sottoscritto, minacciato senza esito da un fratello dell’imputato, conferma della deposizione e quattro anni di pena, interamente scontati. Il Mattino dedicò nove colonne all’episodio e i colleghi fecero una gigantografia che fu appesa alle pareti del pronto soccorso e per anni, quando sorgeva una controversia con i parenti degli ammalati, pane quotidiano in un pronto soccorso di frontiera privo di drappello, io invitavo prima di continuare la questione a leggere l’articolo e poi eventualmente decidere di continuare: un prodigioso antidoto per qualsiasi diatriba.
Dopo alcuni anni di onorato servizio (anche se praticato solo nel fine settimana) il mio studio privato richiedeva oramai una mia presenza costante anche il sabato e la domenica fino alle cinque, per cui decisi, essendomi iscritto, dopo aver conseguito quella in Ginecologia, ad una seconda specializzazione (in Chirurgia Generale) ed avendone pienamente diritto, di chiedere un’aspettativa senza stipendio per due anni.
L’amministrazione oppose un inspiegabile rifiuto, asserendo che la mia collaborazione era indispensabile; un comportamento ingiustificato che solo dopo anni scoprii, dettato da un’antipatia nei miei confronti da parte del direttore amministrativo, il quale sospettava una tresca tra me e la moglie, tra l’altro brutta ed in trombabile(neologismo creato da Berlusconi per indicare il culone della Merkel). Al diniego non mi scomposi più di tanto e diedi appuntamento a dopo 24 mesi:” Se non volete concedermi un’aspettativa senza stipendio, vuol dire che da domani sarò malato e per guarire ci vorranno due anni!”. Scelsi come patologia l’ipertensione arteriosa e cominciai a spedire regolarmente dei certificati mensili.
Venni convocato più volte da svariate commissioni mediche, alle quali mi presentavo dopo aver assunto, un’ora prima, una o più dosi di Pressamina, un farmaco capace di innalzare pericolosamente la pressione, che risultava regolarmente e di molto superiore ai valori normali. Dichiaravo inoltre di avere vampate di calore, continui svenimenti ed un’ incipiente impotenza. Ricordo che in occasione di uno di questi controlli un membro della commissione bonariamente cercò di convincermi: “Collega ma non pensi di poter riprendere il servizio?”. La mia risposta fu lapidaria:” Si prende lei la responsabilità di affermare che io sono guarito e se poi al pronto soccorso si presenta infortunata la moglie di un camorrista ed io non sono in grado di soccorrerla per una perdita di coscienza?”.
Mi diedero altri tre mesi di prognosi ed oramai dovevo superare solo l’ultimo ostacolo costituito da una commissione provinciale, che se avesse riscontrato che la mia patologia era stata contratta durante il lavoro, mi avrebbe proposto un pensionamento anticipato per causa di servizio, a tal punto che interruppi addirittura l’invio di certificati attestanti la mia infermità All’improvviso il mio nome comparve su tutti i giornali per l’attività che svolgevo privatamente e l’ospedale colse la palla al balzo per licenziarmi in tronco. Avrebbe dovuto invece inviarmi un invito a riprendere il lavoro pena decadenza; non lo fece e questo errore costò alla Asl un miliardo di risarcimento. Credo che per conoscere meglio questa vicenda sia utile rileggere questa intervista del giornalista Goffredo Locatelli, pubblicata dal mensile Albatros (luglio 2002) e ripresa parzialmente nei giorni successivi dai quotidiani Il Portico e Il Mattino Il medico che ha sbancato l’ASL L’azienda ospedaliera lo licenziò e ora gli deve pagare quasi un miliardo. E non è finita… Fu licenziato in tronco nel 1978 mentre era in servizio come ginecologo presso l’ospedale di Cava de’ Tirreni. Motivo: aveva fatto scandalo una sua intervista sull’aborto. Parte da quell’anno una lunghissima controversia giudiziaria per riottenere il posto di lavoro. Che dopo 24 anni, non si è ancora conclusa. Ma c’ è un fatto nuovo.
Due sentenze del Tar e del Consiglio di Stato hanno stabilito la nullità del licenziamento con relativo reintegro nel posto di lavoro e risarcimento del danno. E che danno! L’esborso degli stipendi non goduti per vent’anni con relativi interessi. Il datore di lavoro ha dovuto sborsare poco meno di un miliardo per risarcire il medico, cioè l’ingiusto licenziato. E la vicenda non si è ancora conclusa perché il dottor della Ragione non si accontenta della somma erogata. Vuole ottenere il doppio. Ma vediamo come stanno le cose. Dottor della Ragione a che punto è la sua ultradecennale controversia con l’ ASL Salerno 1? Si è conclusa solo parzialmente, perché dopo 24 anni di liti giudiziarie ed extra giudiziarie mi sono state liquidate le spettanze come dipendente a tempo definito, mentre il mio rapporto di lavoro con l’ospedale di Cava de’ Tirreni era a tempo pieno. E qual è la differenza? Una differenza sostanziosa, nel senso che a fronte di più ore di lavoro corrisponde quasi il doppio dello stipendio. Vogliamo essere più precisi e parlare un po’ di cifre? Certo, il commissario liquidatore dell’USL ha deliberato la somma di 636 milioni e 376mila320 lire per chiudere la mia vicenda, ritenendo così “di evitare ulteriori oneri” (parole testuali del provvedimento) se la stessa fosse proseguita nel tempo.
Di questi soldi, 65 milioni sono stati versati agli enti previdenziali ed i restanti 571 al sottoscritto, il quale ha dovuto pagare 26 milioni di oneri pensionistici e 110 milioni di acconto Irpef, senza contare gli onorari degli avvocati difensori che in oltre 20 anni sono ammontati a circa 50 milioni, tutti rigorosamente senza ricevuta, a fronte dei quali la sentenza mi ha riconosciuto appena 800mila lire per spese legali. Mi restano da pagare ancora altre cospicue quote di Irpef, per cui credo mi resterà molto meno della metà di quanto mi è stato dato. Come si è giunti a queste cifre? Interessi e rivalutazione monetaria hanno inciso per quasi il 70% nel determinare la cifra finale. Ciò significa che questo ritardo, oltre ad aver danneggiato lei che ha dovuto attendere anni, ha danneggiato anche la collettività, cioè tutti noi, facendo spendere centinaia di milioni inutilmente?
Esatto: lo scellerato comportamento dilatorio dell’ASL ha comportato un danno consistente per l’erario e se fossimo un Paese civile ed efficiente, se non la magistratura penale, almeno la Corte dei conti si dovrebbe interessare della vicenda sanzionando severamente i responsabili, colpendoli nel loro portafoglio. E’ contento che tutto si sia concluso? Non si è concluso proprio niente. Mi è stata riconosciuta solo metà delle mie spettanze, per cui ho già instaurato tramite i miei legali un “giudizio di ottemperanza” per recuperare le altre somme che mi spettano di diritto. E non è finita. Anche quando mi saranno riconosciute tali differenze (si tratta di circa mezzo miliardo, oltre ai contributi previdenziali!) resterà da definire la vicenda riguardante gli anni dopo il 1992, a riguardo della quale, a conferma della proverbiale celerità della giustizia italiana, deve ancora celebrarsi il giudizio di primo grado davanti al Tar di Salerno. Esiste pure una seconda controversia? Certo, ma vorrei raccontarle tutto da principio.
Nel 1977 prestavo servizio come ginecologo presso l’ospedale di Cava de Tirreni. Iscrittomi ad una seconda specializzazione in Chirurgia generale ed attraversando un periodo di salute precaria, chiesi all’amministrazione un periodo di congedo senza retribuzione. Ma la risposta fu negativa: premetto che l’allora direttore amministrativo Enrico Violante, che per inciso è da poco ritornato alla sua scrivania di comando dopo una lunga peregrinante odissea, nutriva e nutre tuttora nei miei riguardi un’implacabile quanto ingiustificata antipatia, che tra l’altro ho sempre ricambiato. Si vociferava che fosse becco e che io avessi collaborato a renderlo tale. Il risultato, per l’impegno di studio e di lavoro, fu l’ aggravarsi della mia ipertensione, di conseguenza ci furono lunghi periodi di malattia con congedi sempre decisi dalle commissioni mediche, che più volte mi sottoposero a controlli.
Nell’aprile del 1978, mentre in Parlamento si discuteva della legge sull’aborto, concessi al quotidiano La Stampa una intervista choc, nella quale dichiaravo candidamente di aver praticato in due anni 14mila aborti. Sbattuta a nove colonne in prima pagina, la notizia, ripresa con grande risalto da molti quotidiani e televisioni, determinò un’accesa discussione e contribuì non poco all’approvazione in Parlamento di una regolamentazione più moderna della spinosa questione. L’amministrazione dell’Usl, indignata, prese al volo l’occasione per licenziarmi, nonostante fossi ammalato. Seguì l’ annullamento del provvedimento prima da parte del Tar e poi del Consiglio di Stato. Non paga, l’Usl imbastì anche un’accusa di truffa davanti al Tribunale di Salerno, procedimento che cadde miseramente e per il quale fui assolto con formula piena. Perché fece quelle dichiarazioni? Per il mio mai sopito spirito libertario per il quale senza paura mi batto da oltre 30 anni, sprezzante delle gravi conseguenze che spesso ho dovuto sopportare. In quella occasione fece seguito un procedimento penale dal quale uscii assolto dopo anni e subii anche un attentato terroristico da parte delle farneticanti squadracce di “Fede e Libertà”, che fecero saltare in aria la mia Jaguar.
Con minacce e intimidazioni, soprattutto provenienti da alto loco, ho oramai imparato a convivere. Come mai nel 1992 lei fu reintegrato nel servizio? Nel 1990 il Consiglio di Stato confermò la sentenza del Tar, per cui l’ ospedale dopo varie tergiversazioni si vide costretto a riassumermi. Risultando io malato per molti anni di ipertensione maligna, quelli dell’ASL richiesero preliminarmente un’approfondita visita fiscale sperando di non dovermi più riammettere in servizio. Invece nel corso della visita i sanitari rimasero meravigliati del mio perfetto stato di salute e ancora più increduli nell’ apprendere che tali condizioni erano la conseguenza di un mio pellegrinaggio a Lourdes.
Così furono costretti a riprendermi in servizio, ma del risarcimento economico dovutomi non se ne vedeva ombra; l’amministrazione accampava le più diverse scuse per non pagare. Nel frattempo misi in atto una sperimentazione riguardante una metodica per indurre l’aborto con farmaci e non con interventi chirurgici, ottenendo un ampio consenso tra le pazienti che cominciarono ad affluire sempre più numerose anche da comuni lontani. Apriti cielo. La reazione fu violenta, dal primario e dal direttore sanitario fino ai politici e agli amministratori. Il risultato fu un nuovo licenziamento avvenuto mentre, colpito da infarto, mi trovavo ricoverato presso il centro di rianimazione del “Loreto mare” di Napoli. Nasce così la nuova controversia che dopo circa 10 anni è ancora all’inizio. Dunque è dal 1992 che lei si è attivato per essere rimborsato? Si, e ho tentato tutte le strade: vari giudizi di ottemperanza che si concludevano con un nulla di fatto perché l’ASL, pure in presenza dell’ intimazione al pagamento, faceva orecchie da mercante. Ed inoltre pure senza risultato fu la nomina di più di un commissario ad acta, che teneva la pratica in mano per qualche anno, fino a quando, incassato l’onorario, non decadeva dall’incarico.
Negli ultimi tempi scoraggiato ma non domo tentai un contatto diretto con l’amministrazione. Macchè, trovai un invalicabile muro di gomma. Mi furono fatte poi alcune sorprendenti proposte, pare dettate da una truffaldina direttiva regionale, di rinunciare ad interessi e rivalutazioni, cioè, nel mio caso ultradecennale, al 70% circa delle spettanze. Trovai indecente una proposta simile, per cui, dopo aver registrato alcune conversazioni telefoniche, ero deciso, confortato dal parere del mio penalista, a presentare denuncia per estorsione. Alla fine desistetti e grazie all’intervento, del tutto disinteressato, di un personaggio galattico sono riuscito anche se parzialmente ad ottenere ciò che per 24 anni mi avevano negato. Può fare il nome di questa persona che l’ha aiutata a sbloccare la vicenda con l’ASL? Si dice il peccato ma non il peccatore, anche se in questo caso si tratta di un merito e di un meritevole; posso precisare però che non si tratta di un politico.
Quale conclusione può trarre oggi dopo tanti anni di ininterrotta battaglia? Dando appuntamento ai figli ed ai nipoti fra qualche decennio per tirare le somme, consiglio a tutti di non cessare mai di lottare per il riconoscimento di un proprio diritto: quanto più irto e difficile è il cammino tanto più bella e gratificante è la vittoria(quando e se arriva)finale.
P.S. – In seguito ho ottenuto il restante risarcimento, ma sono ancora in attesa, dopo soli 33 anni dall’inizio della controversia, del trattamento di fine rapporto, alias liquidazione.

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