DISAGIO, DEVIANZA, MICROCRIMINALITA’E BABY-GANG. L’AGGRAVANTE DEL PREDOMINIO DEL BRANCO. NON SERVE ABBASSARE L’ETA’ PUNIBILE.

Puntualmente dopo fatti efferati compiuti da baby gang, dopo le risse tra adolescenti, dopo il predominio del “branco”, viene reinvocato da esponenti politici l’abbassamento dell’età punibile,(che oggi è a 14 anni). Molti, anche tra magistrati,  parlano di impunità che diventa certezza, che a questi microcriminali tutto è consentito.

Sono sollecitato a qualche considerazione a partire dalla mia esperienza trentennale con i minori a rischio, anche attraverso l’associazione La Mansarda di cui sono presidente. Parliamo della effettività della pena per i minori, del maggior rigore, della sicurezza urbana, della non tenuta di migliaia di famiglie, delle risposte educative che non arrivano, del contesto inquinato dove vivono, della mancanza di vere politiche sociali, della non prevenzione. Parliamo di questi minori, adolescenti a metà, che vivono disagio, devianza a passano alla microcriminalità.
Innanzitutto occorre selezionarli questi minori, non fare di ogni erba un fascio: ci sono quelli che evadono l’obbligo scolastico, quelli che vivono un disagio, che vivono conflitti in famiglia, che vivono un sottosviluppo economico, un vuoto culturale, di diritti negati, di politiche deboli. Ci sono i bulli che si sentono importanti e vogliono farsi notare dalla loro “comunità”, ragazzini anche molto piccoli che commettono violenze, apparentemente anche immotivate, solo per affermare se stessi, e marcare la propria presenza sul territorio. A questi ragazzi più attori sociali possono aiutarli a percepirsi come persone in grado di mettersi in gioco, reinventarsi, ritrovarsi, senza passare al secondo livello. A questi ragazzi si possono insegnare le regole di vita, il valore ugualitario della cultura, il limite di quello che è lecito e no, la bellezza del territorio, la passione per la vita sportiva. Scuole aperte di pomeriggio, parrocchie accoglienti, educazione civica, strutture sportive, risposte educative aiutano.
Ci sono quelli che da questi contesti passano alla devianza, che vivono meccanismi di identificazione. Per un minore che cresce in una famiglia violenta, i modelli, i valori, le misure del bene e del giusto sono quelli che gli insegnano in casa e che spesso vede confermati fuori dal contesto delle mura domestiche. Questi sono pronti a trasgredire la legge nel caso in cui non la ritengono giusta. Avvertono che la camorra, la malavita è una madre severa, ma al tempo stesso premurosa. In questa fase un corso di formazione, un lavoro, un allontanamento dalla famiglia, il ritiro della potestà genitoriale,  un nuovo contesto di vita affettiva può essere un antidoto per non andare oltre.
E poi  ci sono quelli che fanno il passaggio: vedono la malavita come una sorta di “comunità, sorella”, a cui sono orgogliosi di appartenere e mitizzano le figure dei boss come eroi positivi. Passano alla microcriminalità,  sanno che devono dimostrare qualcosa di importante fino al compimento della maggiore età, vivono come un orizzonte di vita il post essere minori, fare il grande salto. Ed entrando nel carcere minorile da ventenni diventano capi paranza. Qui un intervento tempestivo è molto utile e spesso gli consente di riflettere sulla gravità del suo gesto, di riparare, di ripartire. Qui le norme stringenti sul potere di arresto sono stringenti. Qui anche il carcere può aiutare. paradossalmente chi entra nell’istituto per minorenni incontra qui lo Stato: la legalità, la scuola, la formazione, l’affettività, il tempo libero.
E poi da un pò di tempo, nella città di Napoli più che in periferia, ecco arrivare i “baby boss”, che vogliono “volare”, sono stufi di prendere ordini, di ” strisciare per terra”, come dicono loro. Questi ragazzi hanno la morte dentro. Sono adolescenti a metà.  Non hanno mai conosciuto un mondo diverso, fatto di cultura, valori, sport, affetti giovanili. Si sentono superiori ai vecchi capi della camorra. Qualche adulto, in carcere, mi ha detto: “Questi commettono reati senza investire quello che guadagnano”.  Vogliono tutto e subito. Qui ed ora. La morte è l’unica pena che conoscono. Se hanno deciso di uccidere, lo fanno. Sparano nel mucchio e spesso non sanno neppure usare una pistola, uccidono vittime innocenti.
Ora senza avere la bacchetta magica, che fare, pur avendo la rabbia nel cuore, l’impotenza a risolvere le questioni, visti i numeri. Può solo il carcere essere la risposta che mette tranquillità? Tra il carcere di Nisida e quello di Airola 80 minori sono in carcere,duecento sono nelle comunità convenzionate. E quella marea di denunciati, fermati, osservati dalle assistenti sociali, per gli altri cinquemila che facciamo? Vogliamo abbassare, arretrare la soglia minima di punibilità, cioè mettere in carcere un tredicenne, un dodicenne perchè è già adulto, aggressivo, violento, furioso? Una società che giudica un minore e dopo averlo giudicato lo mette in carcere è una società malata che sta giudicando se stessa e la propria malattia,il proprio fallimento. Sottrarre un minore a un contesto familiare  che incanala la sua vita  ad un destino di illegalità, di devianza ed antisocialità è in astratto giusto e doveroso, ma occorre farlo prima del reato e del reato grave.

Occorre ripensare,a livello ministeriale, a quelli che stanno nelle carceri minorili non come a delle persone che vivono il disagio e la devianza, ma la microcriminalità e quindi avere con loro altri metodi di intervento educativo e valoriale.Si entra in carcere minorile per reati gravi,anche associativi. Molti reati sono compiuti da gruppi: allora introduciamo “il predominio di branco” come un aggravante.
Diciamo la verità lo Stato ha abdicato al suo ruolo educativo,ha arretrato posizioni,non investe in politiche sociali,sui minori,non fa politiche di prevenzione, di diritti per gli adolescenti. Le riunioni al vertice non bisogna farle con il Ministro degli Interni, ma con quello della Giustizia, dell’Istruzione, delle Politiche sociali.

 

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