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FENOMENOLOGIA D’UNO SCUDETTO

Riconosco ai bambini il possesso di una speciale arte maieutica.
Intorno a qualsiasi ragionamento.
Una capacità, direi, innata. Certo inconsapevole. Che con il trascorrere degli anni abitualmente si trasforma. Ma non sulla strada di una maggiore consapevolezza dell’individuo, piuttosto – al contrario – verso una regressione decisa nel mettere a fuoco domande e risposte.
Il risultato è che la consecutio si disperde. L’esito di un ragionamento si moltiplica in vari esiti che paiono tutti egualmente legittimi ma che messi insieme non producono un punto di sintesi. E proprio come in un moto circolare ecco che si è costretti a tornare al punto di partenza a mani vuote.
Così accade che di fronte allo stesso quesito la persona adulta possa dare due o più risposte diverse, almeno fino a quanto davanti non compaia quell’interlocutore speciale: cioè un bambino.
“Ma davvero quest’anno vinciamo lo scudetto, papà?”.
La domanda in verità me la sono posta molte volte nelle ultime settimane. I risultati degli azzurri sono stati spesso confortanti. Il merito non si discute. Così come le qualità anche morali del gruppo, intese come capacità di equilibrio dei calciatori di aiutarsi reciprocamente. Il rendimento non continuo di alcuni avversari lascia gonfiare la speranza di veleggiare lassù cima senza troppe tempeste. Rivedo in alcuni frangenti le magiche sequenze dei successi passati. E talvolta, quando mancano pochissimi secondi al termine della partita con gli azzurri avanti di misura e gli avversari che pressano, riconosco anche quella che in città si definisce “’a ciorta ‘e chi adda vencere”.
Aggiungo: un po’ sono anche sedotto dalla prospettiva molto singolare di vivere eventualmente un avvenimento del genere attraverso un coinvolgimento anche professionale.
“Ma davvero quest’anno vinciamo lo scudetto, papà?” mi chiede il ragazzetto. E la risposta non ha vie di fuga visto che la domanda non offre sponde di salvataggio del genere “possiamo vincere”. No, il ragazzetto vuole sapere da me se davvero il Napoli vince lo scudetto stavolta. Lui che fin qui si è divertito con le geometrie Mazzarri, lui che ha apprezzato l’intellettualismo di Benitez, lui che non trova strana la tuta di Sarri, giacché – essendo avvezzo allo sport praticato più che allo zapping – è aduso avere a che fare con allenatori in tuta e non in giacca e cravatta.
Al ragazzetto devo dare una sola risposta, che comprenda tutte le mie percezioni. Al di là di ogni scaramanzia si tratta di percezioni largamente positive, ma che messe assieme non fanno un sì.
Allora d’istinto mi sovviene una speciale concordanza tra quello che vedo ora e quello che vidi circa trent’anni fa.
Ricordo perfettamente: in quegli anni ci fu una cesura netta nella rappresentazione mediatica dei successi azzurri. Prima fu la simpatia: circondava la squadra, intorno a quella leggenda vivente che era el Pibe in campo, intorno alla capacità del gruppo di fare squadra (da Bagni a Sola, da Garella a Bruscolotti), intorno a quell’allenatore che conosceva bene la breriana sindrome di Marechiaro, intorno a quel presidente che sia pure accentratore s’era lasciato guidare ora da Juliano ora da Allodi nella costruzione di un team da primato.
Sì, certo: anche allora esistevano i cori beceri inneggianti al Vesuvio, anzi proprio allora quei cori traevano nuova forza nel Bel Paese che coinciava ad assaporare le mire secessioniste della Lega Nord. Il primo scudetto approda proprio nell’anno in cui Umberto Bossi siede per la prima volta tra gli scranni del Senato.
Eppure quel Napoli caparbio e insolente come uno scugnizzo entrava nelle simpatie del circuito mediatico (ricordate la mitica mascotte Gennarì?). Forse per via di quella compassione a buon mercato cui gli italiani erano stati mossi dalle immagini terribili della tragedia del terremoto dell’80. Forse per i buoni uffici di quella classe dirigente campana (in gran parte democristiana) che occupava le poltrone più importanti e rappresentative in Parlamento come nel governo. Quando il Banco di Napoli era ancora il Banco di Napoli.
Così accadde in un primo momento che l’idea di un gruppo azzurro emergente in fondo in fondo non fosse proprio invisa a chi doveva dare rappresentazione del nuovo fenomeno calcistico del momento. Anche perché l’operazione non costava particolare fatica: al binomio delle reginette degli anni 80 bastava cassare la scritta Roma. E poi anche l’Avvocato non aveva mai sottaciuto la simpatia con cui salutava el Pibe, di contrasto al suo piccolo principe venuto da Oltralpe. Quindi, parlar bene del Napoli e dei napoletani non era una bestemmia: ricordate? Alla tifoseria azzurra fu assegnato nientemeno che il premio fair play!
Poi il Napoli vinse. E allora tutto cambiò. Perché l’Italia calcistica alla fine questo è. Può consentire timide intrusioni purché siano brevi, anzi brevissime: com’è accaduto al Cagliari, al Verona, alla Sampdoria. A patto che ritorni presto l’equilibrio antico e che lo scudetto continui ad essere un affare che viaggia – pendolare – sull’asse dei 140 chilometri che separano Milano da Torino. Un po’ pochino rispetto agli oltre mille della penisola italiana, non vi pare? La stessa distanza che separa la Sicilia dalla Tunisia…
Allora tutto cambiò. Nella percezione collettiva passò soltanto l’immagine delle sregolatezze del Pibe, peraltro già note dal tempo delle notti catalane, dunque dov’era la novità? Ma ormai era partito l’ordine: distruggere il giocattolo. Intanto gli azzurri avevano aperto un ciclo. Dominarono le scene calcistiche per altri quattro anni. Colsero due secondi posti dietro Inter e Milan. Rivinsero lo scudetto. Si aggiudicarono la Coppa Uefa, quando ancora valeva qualcosa.
Ecco, io sono persuaso che il crescere delle ingiurie e il dilagare di un’informazione distorta sul gruppo (vedi il putiferio suscitato prima sull’abitudine dei giocatori di festeggiare con i tifosi a fine partita, poi il surreale caso Mancini) sia la regina delle prove, come una certezza solida kantiana. L’Italietta di un sistema bacato e asservito al potere juventino (nelle more che le milanesi ritrovino i propri equilibri) teme l’ascesa azzurra.
Ecco, dunque, la risposta: sì, il Napoli è lassù per vincere lo scudetto. La fenomenologia dei successi questo rivela.
Aggiungo una considerazione e un invito a tifosi e simpatizzanti. Il fatto che gli azzurri non siano graditi ai vertici del Sistema non significa necessariamente che un complotto, presunto o vero, sia in grado di fermare la scalata. L’enciclopedia dello sport è piena di vittorie non amate, se non disprezzate: vero Owens?

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