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La (non) guerra di Gaza e la democratica ‘logica del genocidio’

Dallo scorso 8 luglio, l’esercito israeliano ha dato inizio all’operazione militare denominata “Protective Edge”, con la quale conduce numerosi attacchi verso la Striscia di Gaza con l’obiettivo dichiarato di colpire militanti e postazioni di Hamas.

Quest’ultimo intervento è frutto di un’escalation iniziata il 12 giugno, quando tre ragazzi israeliani furono rapiti nel sud della Cisgiordania. Il governo israeliano immediatamente accusò Hamas (che negò ogni responsabilità) del rapimento dando avvio a numerosi arresti di militanti e simpatizzanti dell’organizzazione palestinese fino a superare le 500 unità. Quando il 30 giugno i cadaveri dei tre ragazzi israeliani furono trovati, il Governo Netanyahu annunciò immediatamente la sua intenzione di colpire duramente Hamas col fine di sradicare il pericolo terroristico nell’area. Da quel momento è iniziata l’operazione militare israeliana “Margine protettivo”: prima con attacchi missilistici, poi dal 18 luglio anche con l’intervento di terra. Gli esiti del conflitto in termini umani sono considerevoli, con più di 550 morti tra i palestinesi (il 72% dei quali civili secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) e 25 vittime israeliane (2 di cui civili) – il bilancio aumenta di minuto in minuto mentre scrivo.

Oltre alla reazione emotiva che suscita tanta morte e sofferenza, diviene doveroso soffermarsi e interrogarsi su quanto sta accadendo in Medio Oriente partendo forse dalla domanda apparentemente più banale: che cos’è quella a cui assistiamo? Una guerra?

Sebbene si sia soliti associare questo termine a qualsiasi azione militare, in realtà le cose sono più complesse di quanto appaiano. Il termine “guerra”, infatti, serve per definire non una qualsiasi manifestazione della forza, ma un evento e condizioni molto precise. Dalla metà del ‘700 in poi i teorici della politica e i giuristi si sono incessantemente sforzati di edificare il diritto internazionale sugli Stati quali protagonisti della politica e della scena internazionale. Ciò significa che, in termini di diritto, gli Stati sono gli unici soggetti destinati a fare un uso legittimo della forza, quindi anche gli unici cui è riconosciuta la titolarità di fare la guerra. Una guerra, per essere tale, pertanto, deve essere un atto di forza che vede fronteggiarsi due Stati.

Qui si pone un primo problema. Da una parte, abbiamo Israele – uno Stato moderno, tecnologicamente avanzato e militarmente ottimamente equipaggiato –; dall’altra abbiamo Hamas: un’organizzazione politica che dal 2007 amministra la Striscia di Gaza. Il punto è che la Striscia di Gaza non è uno Stato (né fa parte di uno Stato Palestinese più ampio), perché Israele da sempre si oppone strenuamente all’ipotesi di due Stati sovrani. Non solo non è uno Stato sovrano, ma la Striscia di Gaza non è neanche minimamente indipendente, essendo ogni accesso al suo territorio controllato da Israele e dall’Egitto per una piccola parte a sud (il mare che la bagna è anch’esso sotto controllo israeliano come sanno bene gli attivisti di Gaza Freedom Flotilla).

Siccome Hamas non è uno Stato, né tantomeno lo è la Striscia di Gaza, se ne induce che quella che sta avvenendo in Medio-Oriente non è una guerra.

Se quanto sta avvenendo non è ciò che in età moderna definiamo guerra, allora che cos’è? Siccome l’inizio dell’operazione è definibile come una reazione a un atto di violenza, allora possiamo ricorrere a un’altra dottrina della guerra, ma non moderna bensì medievale: quella della guerra giusta. Questa concezione dopo esser scomparsa per secoli fu riutilizzata in occasione della Guerra del Golfo Persico del 1991 e da qui rientrò nel lessico politico (sebbene molto controversa da giuristi e politologi). Questa teoria prevede che per essere giusta (in termini morali più che di diritto) una guerra deve basarsi su una giusta causa, tra la quale è prevista, in particolari occasioni, anche la vendetta. Anche in questa circostanza, tuttavia, la teoria non ci supporta, perché per essere veramente giusta, una guerra deve seguire l’irrinunciabile criterio della giusta proporzione fra l’offesa subita e la reazione. E poiché a fronte dei tre ragazzi israeliani brutalmente uccisi da ignoti è seguita un’operazione militare che sta mietendo oltre 550 vittime con tanti civili coinvolti, anche l’ipotesi di una guerra giusta è da escludere.

Di fronte all’impossibilità di inquadrare l’operazione militare israeliana all’interno delle categorie delle azioni ‘legittime’ previste dal diritto (e dalla morale), non ci resta che parlare, in questo caso, di aggressione. Aggressione, si badi bene, non tanto ai danni di una forza politica che ha operato e opera in modo discutibile, criminale o terroristico (Hamas rientra nell’elenco delle organizzazioni terroristiche di Unione Europea, U.S.A. e altri Stati), quanto di un intero popolo che vive in una piccola striscia di terra densamente popolata e per il quale è impossibile veramente scappare dall’avanzata militare.

Il giornalista israeliano Gideon Levy il 14 luglio ha pubblicato un articolo sul quotidiano Ha’aretz (tradotto da Internazionale) in cui asserisce che l’obiettivo di Israele è “uccidere civili” nella speranza di ristabilire la calma. Egli certo non intende dire che l’attuale obiettivo militare sia l’uccisione di tutti i palestinesi, sebbene l’operazione militare stia procedendo senza curarsi dell’alto numero di vittime civili che sta causando – come si è lasciato sfuggire il Segretario di Stato U.S.A. John Kerry durante un fuori onda sulla Fox del 20 luglio. Le sue parole, tuttavia, sono pesanti come pietre perché lasciano intravedere lo scenario di un progetto politico inquietante la cui tensione ideale o esito finale prevedrebbe, in teoria, l’eliminazione del popolo palestinese quale via conclusiva alla calma e alla pace.

Questa tensione, in realtà, sembra effettivamente star permeando la società israeliana, e non solo tra gli ultranazionalisti, ma anche in strati apparentemente insospettabili della popolazione. Di recente il blogger David Sheen ha pubblicato un post intitolato “Terrifying Tweets of Pre-Army Israeli Teens” in cui raccoglie alcuni risultati di una ricerca condotta su Twitter inserendo l’hashtag “ARAVIM” (la parola israeliana per “arabi”). Analizzando e selezionando i tweet, Sheen fa emergere un diffuso sentimento razzista da parte di adolescenti israeliani che esortano esplicitamente l’esercito a torturare e sterminare i palestinesi. Dello stesso tenore è l’intervento della deputata della Knesset, Ayelet Shaked, la quale ha a più riprese auspicato che nel corso dell’intervento militare tutte le madri arabe fossero uccise per evitare la nascita di nuovi terroristi.

Due esempi che mostrano con chiarezza che in Israele sta diventando socialmente accettata e pubblicamente ammissibile la ‘logica del genocidio’, quella che veicola l’idea dell’eliminazione di un popolo quale mezzo per la sopravvivenza e il benessere dell’altro. Il paradosso è che una volta diffusasi nella popolazione israeliana, la ‘logica del genocidio’ può diventare uno strumento di morte concretamente operante. Col paradosso democratico si rischia che Israele persegua con determinazione la logica del genocidio proprio in nome e in rispetto del fatto di essere una democrazia.

Per evitare questo occorre che la comunità internazionale smetta di voltarsi dall’altra parte facendo finta di non guardare. Negli ultimi decenni lo Stato israeliano è stato lasciato libero di intraprendere le proprie politiche di colonizzazione dei territori palestinesi senza nessuna reazione reale se non qualche inascoltata risoluzione O.N.U.. Per aiutare Israele a respingere le tentazioni della serpeggiante logica del genocidio occorre che la comunità internazionale smetta di trasformare il Medio Oriente in un buco nero del diritto internazionale, in un’area del mondo dove le geometrie del diritto e della ragione si piegano incessantemente sotto l’enorme massa (simbolica e politica) rappresentata da Israele. Favorire la formazione di due Stati con confini fissi non è solo un passaggio formale ma è il primo passo verso l’eliminazione di tutte quelle zone grigie dove i desideri più inconfessabili trovano ospitalità. Solo in questo modo si può pensare di ripartire per una nuova fase fatta di accettazione e di rispetto dei due popoli quale via alla coabitazione.

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