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LE PORTE DI CASA. UNO SCRITTORE ENTRA NEL CARCERE DI SECONDIGLIANO.

di Paolo Tricoli

Le porte di casa, le porte delle nostre stanze, le apriamo e le chiudiamo ogni giorno. Sono gesti consueti, quotidiani, irrilevanti. Poi capita di imbattersi in porte di ferro che si aprono davanti a noi e si chiudono dietro di noi per mano di altri. Le prime hanno la familiarità, il colore e la morbidezza del legno. Le seconde hanno la freddezza,  le screpolature e la rumorosità del ferro. E’ questa la prima immediata sensazione che ho avvertito durante la breve esperienza vissuta venerdì scorso presso la Casa Circondariale di Secondigliano. Un’esperienza che trae origine dalla curiosa idea di scrivere un libro alla non più tenera età di 64 anni. Questa singolare avventura che ha incontrato il favore di diversi lettori (molti amici, lo confesso) ha fatto sì che mi imbattessi per la prima volta nella mia vita in Samuele Ciambriello, docente universitario, direttore editoriale, sociologo, uomo politico nel senso stretto e ampio del termine e molte altre cose ancora, anche se ritengo che qualsiasi definizione lo limiti e tra l’altro lo lasci indifferente. Questo libro che si intitola “Informazioni sulla vita e sulla morte del povero Vincenzo” ed. New Book – Rovereto (TN) che Samuele ha avuto l’ardire di presentare al pubblico presso la Libreria Mondadori al Vomero Alto nel gennaio dello scorso anno è stata l’occasione di rincontrarlo pochi giorni fa nella veste, che forse gli è più cara, di Presidente e  animatore dell’Associazione La Mansarda che si propone di stimolare le persone sottoposte a detenzione alla lettura perché “ la lettura oltre ad un impegno intelligente del tempo, fa diminuire le distanze tra le persone e le stesse diseguaglianze. Una persona che legge, è più ricca rispetto ad una persona che non legge e non utilizza la conoscenza. Un modo, un piacere, una fonte di idee, riflessioni, pensieri, perché i detenuti riescano a comprendere l’importanza della lettura, ad amarla e considerarla un tesoro da scoprire”.
Dunque Samuele un anno dopo il nostro primo incontro  mi ha invitato a parlare con un gruppo di detenuti del mio libro. Si tratta di un giallo ambientato a Napoli che è la mia città e lo è stata per 23 anni, da quaranta non lo è più. Vivo la realtà di una piccola e bella città del Trentino ma ogni tanto, attirato dalle origini e dagli affetti familiari, torno; sempre con un pizzico di emozione in più. Questa volta l’emozione si è fatta trepidazione, non lo posso negare. Non ero mai entrato in un carcere. Sebbene fossi accompagnato oltre che da Samuele Ciambriello da una serie di giovani volontarie dell’Associazione che con l’allegria della loro età proponevano un’immagine di normalità, sentivo l’inquietudine di oltrepassare un confine. Ho sempre pensato che la detenzione sia per un individuo come una sospensione del tempo. Il vivere in una dimensione astratta, innaturale. Come ho detto all’inizio è proprio l’attraversare quelle soglie di ferro che scandisce la differenza, così come quel rumore cupo e battente dei cancelli, dei chiavistelli, quell’entrare in un mondo fatto di regole sue, di disciplina, di continuo adattamento a situazioni sempre uguali a se stesse ma sempre nuove. Credo sia impossibile vivere quelle giornate come un tempo comune. Ho attraversato estesi corridoi segnati da strisce colorate lungo i muri che indicano i vari reparti così come “fuori” i nomi di persone, di fatti, di luoghi indicano le strade delle città; ho visto pareti tappezzate di murales “fatti in casa” colorati di allegra semplicità, ho visto riprodotta l’Amerigo Vespucci una nave scuola, forse il massimo simbolo della libertà, la libertà che da sempre associamo al mare. Ed in questo mondo “diverso” ho incontrato un gruppo di persone in detenzione chi provvisoria chi perenne. Samuele aveva dato loro qualche giorno prima un certo numero di copie del mio libro affinché lo leggessero e così ne potessimo parlare insieme. Proprio così: “parlare insieme”. Perché “parlare” è il bisogno primario che ogni membro di quelle collettività dovrebbe poter soddisfare, parlare di un libro, anche un  semplice libro come il mio serve a raccontare, più o meno consapevolmente, se stessi,  a “farti uscire”. E quella che per me è stata la soddisfazione di un piacere simile ad un gioco, quale scrivere un racconto, si è trasformata nell’emozione di sentirne “parlare”, di verificare che persone che non ho mai visto, non  ho mai conosciuto, che vivono una realtà così estrema abbiano letto le parole che io ho scritto, e si siano calate nei panni di Antonio, di Amalia, di Vincenzo e degli altri protagonisti anche minori di una storia inventata, abbiano vissuto per qualche ora, e dunque per sempre, un’altra vita (che altro è il leggere, se non questo ?) mi ha commosso intensamente. Non credo si possa usare altro verbo. Ed è stato inevitabile alla fine discutere, nei pochi minuti rimasti a disposizione,  oltre che dei personaggi anche della nostra città che è quasi persona essa stessa nel libro. Avevo uomini davanti a me con esperienza di vita indubbiamente diversa dalla mia eppure c’eravamo mossi per molti anni, sulle stesse strade, sullo stesso palcoscenico quello di una città abusata, esaltata, meschina, superba, ognuno ne aveva tratto il meglio e il peggio, eppure tutti ce ne sentivamo figli. Molti mi hanno detto che quella città che intravvedevano nel mio libro non esisteva più, che quella solidarietà che scaturiva dai vicoli, dalle piccole botteghe, dai cortili di quei palazzi ammuffiti e scrostati,  era figlia del mio ricordo lontano; parole amare che forse servivano ad attenuare il dolore di un forzato distacco o forse no. Sembravano riecheggiare i versi di Munasterio ‘e Santa Chiara, celebre quanto amara canzone dell’ultimo dopoguerra. Ma quando poi la separazione fisica con l’uditorio si è sciolta, e le distanze si sono annullate, e le ultime parole si sono fatte  capannelli, e si sono firmati autografi e si sono strette mani, uno dei presenti mi si è avvicinato timidamente dicendomi “non è vero, dotto’, questa città è ancora come quella del suo libro, la gente si vuole ancora bene, nonostante tutto”.
Proprio così:  nonostante tutto e nonostante tutto è stato un incontro tra uomini con vissuti diversi ma comunque liberi di leggere e dunque desiderosi di pensare, di credere e di sperare.

Paolo Tricoli

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