Qui ed ora

Lo scontro Governo – Sindacati giova al Centrosinistra e al Paese?

Voglio cominciare con un quiz. Indovinate chi ha pronunciato le parole che seguono:

Per quanto riguarda il mercato del lavoro ho già detto che maggiore flessibilità non aiuta a risolvere i problemi attuali, anzi li aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la domanda. La situazione italiana vede già presente un elevato grado di flessibilità. Aumentarla ancora indebolirebbe l’economia senza portare vantaggi. Bisognerà essere cauti”

Risposte:

  1. Camusso
  2. Landini
  3. ???

Già vedo gli esegeti del nuovo corso arricciare indignati il naso. Una posizione così retrò non può che essere espressione del principale soggetto della conservazione: la non mai abbastanza vituperata CGIL con la complicità della FIOM. Questi principi mettono in discussione il fondamento del “Jobs Act”: la flessibilità come elemento di progresso-Sono da respingere.

Ebbene, cari renziani ante-marcia ed entusiasti fans del nuovo(!?) che avanza esse sono le parole di Joseph Stiglitz, già capo economista della BMI e capo dei consiglieri economici di un paio di presidenti USA. Così, a lume di naso, una persona che di economia ne sa più di qualche sprovveduto improvvisatore.

Esse suonano come una critica feroce all’austerità che non è, come il pensiero unico corrente sostiene, un sinonimo di “rigore”.

Il nostro autore sostiene che il Fiscal compact è sbagliato ed è errata l’idea che un basso rapporto fra deficit pubblico e PIL avrebbe risolto i problemi. Ancora più incomprensibile, aggiungo io, avere introdotto questo vincolo in Costituzione.

Il problema dell’Europa, e dell’Italia in particolare, è la debolezza della domanda e la flessibilità è, da questo punto di vista, un ostacolo.

Fra tante analisi e economiche non ha ancora sentito una riflessione sul fatto che il monte salari, come quota del PIL è in caduta libera mentre è in rapida ascesa quella dei profitti e delle rendite. Un regime di salari bassi ed incerti, spesso al di sotto della linea di quello che gli inglesi chiamano Living wage ovvero quel livello salariale minimo che copre le esigenze primarie della famiglia sicuramente deprime la domanda ed è di per sé, ostacolo allo sviluppo.

Se a ciò si aggiunge l’incertezza derivante da una flessibilità non regolata, senza adeguata protezione dei periodi di passaggio da un lavoro all’altro non dobbiamo meravigliarci della depressione della domanda che a sua volta crea difficoltà gravi al mercato ed alla attività produttiva.

In questo scenario si inserisce la polemica Governo – CGIL derivante dalla posizione neo-corporativa del Governo che vede nell’azienda una comunità di produttori, la cui armonia sarebbe turbata, a detta di Renzi, dal sindacato che tende ad esasperare contrasti che non hanno ragione di essere. In questo idilliaco panorama gli imprenditori (rectius: padroni) sarebbero vessati dai sindacati ed anche dai lavoratori che, non si capisce bene perché, vogliono tutelare i loro diritti. Il corollario a questa difesa dei diritti è la posizione di chi vede in essi la radice della contrapposizione tra garantiti e no.

Questa tesi, costruita a tavolino come elemento propagandistico teso a creare una artificiosa contrapposizione nel corpo sociale ha il deleterio effetto di mettere in crisi la coesione sociale di cui il Paese ha bisogno in questi momenti difficili. Contrapporre i pensionati ai giovani, gli occupati ai precari aggrava i problemi degli uni senza risolvere quelli degli altri. Questa pretesa analisi dimentica una circostanza: le norme che hanno creato le flessibilità legate da una congerie di rapporti contrattuali diversi derivano da scelte politiche, da leggi proposte dai governi ed approvate dal parlamento. I sindacati si sono sempre opposti ad esse. La frantumazione del mondo del lavoro crea problemi di rappresentatività derivanti non da scelte sindacali ma dalla oggettiva difficoltà di raggiungere una platea atomizzata, in cui la stessa definizione di lavoratore è aleatoria.

Il dramma dei pensionati al minimo, delle famiglie monoreddito che, al Meridione sono la norma, dei giovani che vivono di frustrazione richiedono scelte coraggiose e non l’appiattirsi su tecnocratiche certezze che vedono nel pareggio di bilancio la panacea di tutti i mali. Da aggiungere che nel considerare la condizione giovanile l’enfasi è tutta sul destino degli universitari e dei laureati, costretti a cambiare paese per trovare opportunità di lavoro. In realtà la questione giovanile è molto più grave: Universitari e laureati sono circa il 10% dell’universo giovanile. L’altro,90% è caratterizzato spesso da bassi livelli di istruzione e da insufficiente preparazione professionale. Questa è la radice del dramma delle giovani generazioni eppure nelle analisi politiche essa è ignorata né è presente nelle proposte che vengono sottoposte a l Parlamento.

Pongo qui una questione che ritengo fondamentale: può un partito che si richiama alla socialdemocrazia contrapporsi ai sindacati ed ai lavoratori fino ad essere percepito da essi come estraneo se non avverso? Può un simile partito privilegiare le pulsioni anti-popolari di una piccola borghesia frustrata che vede fannulloni dappertutto? Può un simile partito dimenticarsi degli ultimi, vecchi o giovani che siano senza mettere in discussione la sua natura sociale?

Insomma questo partito da che parte vuole stare? Quali ceti vuole rappresentare e quali interessi vuole difendere? Governare significa scegliere, non accontentare tutti.

Ai fini del consenso un partito vale per come è percepito dal corpo elettorale, al di là delle sue posizioni ufficiali. Purtroppo le polemiche in corso creano un’atmosfera di diffidenza che non giova al prestigio del PD. Sono molto preoccupato per questa situazione. Ho aderito al PD fin dalla sua fondazione convinto della giustezza e della necessità del PD come strumento di quel cambiamento di cui il nostro Paese ha bisogno. La base sociale di un siffatto partito non può che essere una alleanza fra i ceti popolari ed i ceti medi produttivi. Squilibrare questa alleanza crea certamente difficoltà all’azione politica del PD che non possono risolvere nemmeno le brillanti “performances” del suo leader sia a livello nazionale che a livello europeo.

Ovviamente le domande poc’anzi formulate, attendono una risposta convincente ed hanno poco a che fare con le polemiche correntizie e lo scontro per le candidature. Infine un’ultima riflessione: Si va teorizzando, spesso con vivacità, la necessità di un partito “liquido” adatto alla società “liquida” teorizzata da Baumann. Un partito fatto di elettori ed eletti in cui, a dare la linea politica, sono questi ultimi. Chi conosce la storia del nostro Paese comprende subito che questa “novità” consiste nel riesumare un modo di gestire l’attività politica propria dell’Italia prefascista e la cui degenerazione portò alla dittatura.

E’ questo che si vuole? Un “ritorno al futuro”? Quella formula è fallita, non solo in Italia. I partiti politici moderni, in tutto il mondo civile hanno strutture, organismi permanenti che rendono possibile la formazione del ceto dirigente, e regole interne democratiche che rendono contendibile la dirigenza. Un partito che vuole essere progressista non può prescindere da questi caratteri. A meno che non si voglia mutarne struttura e obiettivi e farne un partito di centro, in grado forse di avere un forte consenso ma sicuramente inadatto a far progredire il Paese.
Sinceramente è una ipotesi che non voglio prendere in considerazione e spero che così faccia anche chi ha la responsabilità politica della direzione. Non è nella natura di un partito progressista esasperare le divisioni, contrapporsi ai lavoratori e condurre una lotta suicida al sindacato.

L’Italia ha bisogno di cambiare. Lo richiede la preoccupazione per l’avvenire delle generazioni future, la necessità di ridurre le tensioni sociali, l’obbligo di farne un paese moderno in cui le nuove tecnologie dispieghino tutto il loro potenziale di trasformazione. Il rispetto della nostra storia non è in contraddizione con queste esigenze anzi ne può costituirne la premessa.

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