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Napoli e il suo porto che muore

E’ di oggi la notizia che, dopo Grimaldi, la COSCO (China Ocean Shipping Company) compagnia armatoriale governativa cinese, abbandona lo salo di Napoli. Questa decisione comporterà la riduzione del nostro traffico containers di circa 140mila unità: il 33% del totale.

Si mette in discussione qualche migliaio di posti di lavoro, fra diretti ed indiretti. Diminuiranno le entrate fiscali della Regione di circa 30 milioni annui. Si condanna il nostro scalo ad un declino inarrestabile, dato che, considerate le condizioni attuali, molti altri seguiranno l’esempio. Non si tratta di un fulmine a ciel  sereno. C’erano stati segni premonitori. Più volte COSCO aveva chiesto il dragaggio di fondali per portarli a 17/18 metri, pescaggio dei moderni mercantili. Più volte ciò era stato promesso mentre in realtà, pur in presenza di finanziamenti già stanziati, le gare d’appalto non sono sta ancora convocate.

Inoltre vi sono contenziosi col Ministero dell’Ambiente circa la pericolosità dei fanghi. Nessuna delle istituzioni locali ha reagito. Né Regione né Comune hanno chiesto la convocazione immediata del consiglio portuale, formalmente senza direzione dato che il mandato del Commissario in carica non è stato prorogato ancora. Né hanno sentito la necessità di convocare una conferenza stampa sull’argomento. I partiti e le Confederazioni sindacali restano inermi. Scontiamo un ritardo culturale perché la città e chi la rappresenta considerano il porto un corpo estraneo. Eppure esso ancora assicura 10mila posti di lavoro, fra diretti e indiretti, ed altri ancora potrebbe generarne col suo rilancio. Napoli intera ha pianto per i 200 del San Carlo e di questi diecimila impegnati in una attività industriale redditizia ignora l’esistenza.

Che facciamo? Continuiamo così o ci svegliamo e la smettiamo di paralizzare il nostro scalo per questioni di spartizioni politiche? A questo siamo ridotti?

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