Cultura

Salvatore Di Giacomo e Marechiaro

 

«V’è accaduto mai di ritrovare esistenti le immagini a cui dette forma e vita la vostra fantasia solamente? A udire la piccola e bionda miss alla quale un mio amico, professore a Cambridge, aveva indicato me come un cicerone opportuno alle escursioni partenopee, mi sarei, fra poco, trovato al cospetto evidente delle amorose cose e delle persone che i versi della mia canzone avevano già, sulla morbida nenia del Tosti, quasi fatto famose. La piccola finestra e il vaso de’ garofani e Carolina, tutto questo, dunque, era per apparirmi e svelarmisi a momenti, vivo e vero?

“Siamo arrivati, dear sir…”.

Miss Mary ora levava gli occhi dal suo Stendhal che s’era messo a leggere tranquillamente durante la traversata, e m’indicava qualcosa che subito pigliava forma.

La barca filava, filava con più spedito cammino. Adesso, dal largo, s’era approssimata alla costa: a fiore dell’acqua apparivano alcuni ruderi d’antiche costruzioni. Le onde gemevano appié delle collinette e investivano lì, senza furore, i pilastri crollanti, le colonne spezzate, i residui delle opere greche reticolate e laterizie, ch’un tempo erano state a guardia de’ vasti Campi Flegrei, nascoste dal verde coronamento del lido.

“Marechiaro”, annunziò miss Mary…

E si levò ridente. Il velo turchino del suo largo cappello di paglia si gonfiava e palpitava. Tutta la sua bella figura, alta, eretta, elegante, si disegnava sul cielo e sul mare. La barca s’arrestò e dette fondo in un piccolo seno, uno specchio di chiare e quete acque che l’opera dell’ormeggio turbò poco. La riva ascendeva. Assorgevano dalla riva i primi gradini d’una scaletta scoperta e al sommo della scaletta era la terrazza dell’osteria. Sembravano seppellite nell’arena sottile le origini della scala; l’osteria, tutta bianca, pareva una fabbrica antica, e quel lido solatìo, quasi segreto, faceva pensare a una marina mitologica, a un’Arianna improvvisamente riscossa dal suo pianto o dal sonno, e fuggita, seminuda, in una di quelle arcadiche grotte».

(S. Di Giacomo, Marechiaro, in Id., Il teatro e le cronache, Milano, Mondadori, 1946, pp.469-470).

Come dimostrato da illustri studiosi, Marechiaro non significa affatto mare chiaro, bensì mare calmo, derivando direttamente dal latino mare planum, corrottosi poi nel napoletano mare chianum. Quando nel 1886 Salvatore Di Giacomo compose i versi di quella che rimane la sua più celebre canzone, non era mai stato a Marechiaro. La scrisse standosene seduto al tavolino di un caffè e immaginando che lì, “A Marechiaro”, vi fosse una finestra illeggiadrita da un vaso di garofani e che a quella finestra si affacciasse una ragazza di nome Carolina. Quei versi colpirono profondamente Francesco Paolo Tosti considerato il maggior esponente della romanza italiana di fine Ottocento e molto noto per essere stato insegnante della regina Margherita e poi della famiglia reale inglese. Si offrì lui, con insistenza, di musicare quella poesia ispirandosi alla sigla di un posteggiatore. Salvatore Di Giacomo andò a Marechiaro solo molti anni dopo, come rivelò in un articolo, e riferì anche che su quei lidi, che senza conoscere aveva cantato e celebrato, c’era davvero una finestra adornata da un vaso di garofani: apparteneva a una trattoria la cui cameriera si chiamava, guarda caso, Carolina.

La canzone divenne in breve tempo talmente celebre in tutto il mondo da essere tradotta in più lingue, persino in latino:

«Luna cum Claris Maris exstas undis

aestuant pisce furiis amoris:

pura perlabens variat micantes unda colores»

«Quanno sponta la luna a Marechiare

pure li pisce nce fanno a ll’ammore, /

se revoteno ll’onne de lu mare,

pe la priezza cagneno culore».

Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860-1934), di famiglia borghese, a 20 anni intraprese la sua avventura nel mondo della letteratura e del giornalismo: fu redattore della pagina culturale de “Il Corriere del Mattino” e scrisse numerose poesie, novelle, opere teatrali, che segnarono pagine importanti della storia partenopea. Di Giacomo, affascinato dalla città, ma non della folla dei bassifondi e dei vicoli, diversamente da Raffaele Viviani, guardò Napoli con l’occhio di un figlio privilegiato, che non conobbe, in modo sanguigno, il ventre di sua madre.

 

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