Cultura

SOSTRATI NAPOLETANI, INFLUENZA SUL DIALETTO ATTUALE (I PARTE)

Ferdinando Galiani, detto l’abate Galiani, si adoperò per elevare il dialetto napoletano a lingua del Regno di Napoli (pubblicò nel 1779 un trattato sul dialetto napoletano e un vocabolario del dialetto napoletano, uscito postumo),  ma, allora come oggi, mancava una grammatica storica e della parlata viva. In effetti occorre chiarire che il dialetto napoletano (dal volgare del ‘300 e del ‘400,  nelle opere originali del ‘500 e del ‘600, comprese le opere del Basile e del Cortese), non è esattamente LA parlata viva, ma una commistione con la lingua letteraria e latineggiante. È solo nel teatro comico del ‘700 e ‘800 che il dialetto viene scritto con maggiore fedeltà per rendere più  immediata la comprensione agli spettatori. Per certi aspetti anche la poesia dialettale viene resa “facile” alla lettura di tutti. E a proposito di grandi poeti partenopei, si notino le differenze fra il dialetto ricercato e “leggiadro” di un Di Giacomo e quello colorito e scugnizzo di un Russo. Quest’ultimo, autentico napoletano,  vive in mezzo al popolo, parla il dialetto dei suoi personaggi e mai si abbandona ad espressioni linguistiche ricercate; al contrario, il Di Giacomo adopera un dialetto che, indipendentemente dalla grandezza lirica e drammatica che gli si riconosce, non sempre appartiene alla parlata viva dei napoletani del primo ‘900”.

Il problema della trascrizione è non meno semplice di altri problemi, quali quello dell’indagine etimologica o della regolamentazione della flessione dei nomi e dell’ortografia, chi non è nato e vissuto a Napoli, difficilmente coglie le differenze tra centro e periferia,  tra quartiere e quartiere, intriso il linguaggio di significati e di espressioni che si completano in una mimica caratteristica.

Il “napoletano” non è semplicemente la parlata popolare dei vicoli o quello “più dolce” e classicheggiante dei quartieri “nobili”, né è quello dei grandi poeti dell’Ottocento napoletano, e neppure il dialetto approssimativo adoperato in alcune canzoni, “italianizzato” appositamente per raggiungere il vasto pubblico.

 Il vero dialetto napoletano è quello che affonda le sue radici nel terreno classico, mutato o derivato  dall’oscio come dal greco e dal latino: aggiungiamoci a questi i prestiti linguistici francese, catalano, aragonese, persino arabo.

– “Questi sostrati osci, greci e latini, uniscono l’umanità presente con quella passata. Ad esempio la parola tufa (tromba) è meglio conservata nel napoletano «tofa» (sirena di fabbriche e navi) che nel latino tuba; il vocabolo napoletano “grasta” o crasta (coccio ) è quasi inalterata trasmissione dal greco ‘ycicrrpa; e, con maggiore evidenza, “crisòmmola” (albicocca) deriva direttamente da Xpwómpov, poiché, a differenza del mutuato latino chrysomélum, conserva l’accentuazione greca; il latino mappa si conserva nel napoletano “mappìna” nel significato di ‘straccio’ ed in senso figurato ingiurioso, specie se rivolto a donne non belle o di facili costumi, e probabilmente da mappa (mappala) deriverebbero “mappàta” e «mappatèlla” (involto, involtino); né va dimenticato il particolare valore metaforico dato a “mappàta», come insieme di persone accomunate da una globale considerazione negativa. Ecco altre chiare derivazioni etimologiche per le quali il fenomeno della conservazione nel dialetto napoletano è pressoché inalterato a differenza dell’italiano, che nella maggior parte dei casi indicati o non accoglie l’eredità classica e mutua da altre lingue i vocaboli equivalenti o ne è privo e deve ricorrere alla perifrasi: “ceràsa” Ke’paoos  (ciliegia); “1àgana” Àa’.yava (pasta lavorata col matterello); “sprellùnga” awényya (piatto ovale); “cantaro”  xév6apos (vaso di argilla per uso igienico); “martiéllo” lat. martiolam  (martello); “lacèrta” lat. lacerta (lucertola); “spòrta” lat. sporta (cesta); “curriculo” lat. Curriculum (calesse); “latrucinio” 1at. latrocintam (ladroneccio); “mesàle” lat. Mensale (tovaglia da tavola); “mellóne” lat. melóne (popone, cocomero); “abbunàto”  lat. bonatas (bonaccione); “fetènte” lat. foetente  (maleolente e fig. birbante); “manùcolo”  lat. Manuciolum (lucignolo); “menuzzàglia” minutalia (cose minute, di nessun valore); “Percòca”  lat. praecoca, praecoqua (pesche gialle). Agli esempi di derivazioni classiche sono da aggiungersi quelli dovuti ad influenze linguistiche posteriori: “cannàcca” dall’arabo kannc’tÌca (collana di perle); “vajassa “  ar. baassa  (donna volgare, serva sporca e rumorosa); “giarra” ar. Giarra (brocca); “valànza” dal catalano balanza (bilancia); “sciammèria” dallo spagnolo chamberga (marsina); “buchè” dal francese bouquet (mazzo di fiori); “pecuózzo” fr. bigoz (bacchettone, ipocrita, tipo da sacrestia); “buàtta” fr. boîte (recipiente e conserva di pomodoro in scatola); “secretè” fr. secrétaire (armadietto)”. (SUL SOSTRATO CLASSICO DEL DIALETTO NAPOLETANO – VIRGILIO CATALANO – 1959)

Il dialetto è la lingua più diffusa nel popolo e nel popolo si conserva pressoché inviolata l’eredità linguistica precedente. Dialetto che non è solo fonetica, morfologia e sintattica, ma l’eredità non meno preziosa costituita dal contenuto interiore di quel linguaggio, nel quale è possibile riconoscere aspetti del carattere e del temperamento dei nostri progenitori.

– “La domanda abituale del napoletano: “Che aje ’e bello?” (che hai di buono) è antica di due millenni: si quid belli abes…“; e così pure il consueto esortativo per rianimare una conversazione amichevole: “Dicite quaccòsa ’e bello!” (raccontate qualcosa di piacevole) corrisponde a dicite aliquid belli. La colorita locuzione ipotetica: in faciam meam inspue! (ndr: “te sputo ‘nfaccia!”) continua ad essere l’intercalare solito del volgo napoletano; cosi come per indicare un tipo che non smette mai di parlare si usa ancora l’efficace espressione umquam neo expuit (pressapoco “sputa nu poco…”), e di un tipo frettoloso perché impaziente si dice che è «frettélla », come il giocatore ansioso di conoscere 1’exitus dei dadi dall’apposito vaso che in latino si chiama fritillus; neppure di recente creazione è il nome del personaggio intrigante, presente in ogni circostanza, come il “petrusino” ( prezzemolo) in ogni buona minestra, poiché anche in antico si ha petroselinum, che in una iscrizione pompeiana letta di recente assurge a nome proprio: Petroselìnus Mim(us); …cosi da suggerire anche al Della Corte l’ipotesi di una maschera teatrale (Pompei. Iscriz., op. cit.,  p. 156); chi non ragiona più, per es. per abbondanti bevute per cui “’0 vino l’è ghiute ‘o cerviello”, espressione di icastico sapore classico (oinus in cerebrum abiit), si dice in napoletano ” amnattuto ’, o meglio matto, parola che, più che dal francese mat, deriva direttamente dal latino matus, cioè bagnato, ubriaco. L’invito a fare attenzione alla propria opinione, per rettificare l’altrui, contenuto nella parola “chianu chianu” (un momento, piano piano) deriva dal latino piane; e cosi la raccomandazione “guarda ’nu poco” o quella analoga “tiéne mènte” (fai attenzione) corrispondono all’intercalare vide modo. Nella casa degli Amanti a Pompei  è stata trovata l’iscrizione move te,  esortazione ancora viva nel napoletano “mòvete”.

Nel dialetto,  “bòna”   lat. bona, riferito a donna, non esprime come in italiano le qualità dell’animo, bensì quelle del corpo ed equivale a “formosa”. Non differentemente il nome femminile Casina, titolo di una divertente per quanto licenziosissima commedia plautina, dovette acquistare nell’ambiente plebeo il valore sostantivale di luogo allegro, riunione rumorosa, postribolo. In una iscrizione recentemente scoperta a Pompei si può leggere pueta, invece di poeta, e cioè nella versione popolare che ancora si conserva nel dialetto napoletano “pueta” e così pure, nei nuovi scavi di via Nuceria (Pompei), presso il sepolcro di Eumachia, si legge sotto la statua di Marco Ottavio il nome di P’hìumana, in luogo dei più corretto Philomena, conservato nel nome napoletano molto diffuso di << Filumèna >>; mentre nelle iscrizioni ercolanensi appare l’espressione iustus col significato dispregiativo usato nel dialetto napoletano di ‘ justo ’ come peggiorativo dell’aggettivo cui si accompagna”.

(SUL SOSTRATO CLASSICO DEL DIALETTO NAPOLETANO – VIRGILIO CATALANO – 1959)

Fine della prima parte

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