Cultura

10 cose che non sai su internet

Ci viviamo dentro. Le generazioni più giovani ci sono nate, dentro. Nel web nato all’inizio degli anni Novanta, che è solo un pezzo dello sterminato mare di internet. Eppure spesso ignoriamo date, storia, numeri, aspetti cruciali – o anche minimali, ma in grado di farci capire meglio – della rete da cui passano il nostro lavoro, la scuola, l’intrattenimento, la gestione di tutte le infrastrutture critiche. Non sappiamo neanche se internet sia per tutti o se, come invece capita, lasci ancora fuori un bel pezzo di mondo. Specialmente in una fase come quella pandemica, con buona parte delle attività offline tradotte a forza o con sollievo in chiave digitale.

Il 29 ottobre si celebra l’International Internet Day. Come mai? Questa è la prima cosa da sapere: alle 22:30 di quel giorno del 1969, pochi mesi dopo i primi passi di Neil Armstrong sulla Luna, venne trasmesso il primo messaggio fra due calcolatori. Un computer era all’università della California, a Los Angeles, l’altro allo Stanford Research Institute, a oltre 500 chilometri di distanza. Quel «Login» – alla fine arrivò solo «Lo» – passò da Arpanet, il progetto universitario finanziato dal Dipartimento della Difesa statunitense e antesignano di internet per come sarebbe diventato e in cantiere dagli anni Cinquanta.

Pochi, invece, conoscono l’origine di un altro degli strumenti che si sarebbero integrati a internet: le e-mail. Il salto in avanti è di tre anni: a inventarle fu il programmatore statunitense Raymond S. Tomlinson, scomparso nel 2016. In quel periodo era appunto impegnato nello sviluppo di Arpanet e sfornò un sistema per mettere in comunicazione alcune delle università collegate attraverso quella rete. Il primo fu qualcosa di simile a “QWERTYUIOP” e Tomlinson scelse la chiocciolina, @, come simbolo separatore fra nome dell’utente e indirizzo di destinazione. Ma anche in quel caso, ci si stava già lavorando dal decennio precedente.

Terza tappa obbligata, è quella del web, cioè la parte ipertestuale di internet che possiamo navigare con facilità attraverso i browser. In questo caso la data di nascita, almeno quella che si celebra, è il 6 agosto 1991. Quel giorno (il futuro Sir) Tim Berners-Lee e il suo team di ricercatori rese disponibile la prima pagina web al di fuori del Cern, l’organizzazione europea per la ricerca nucleare di Ginevra dove lavorava, il 23 agosto dello stesso anno.

Da quel primo sito, oggi ne contiamo circa 1,74 miliardi, a disposizione di 4,4 miliardi di utenti internet (818 milioni solo in Cina, in generale è l’Asia a pesare di più in termini di utenza complessiva). Ne mancano dunque oltre 3 all’appello, esclusi da ogni possibilità di collegamento. Non è un caso che il mondo sfoggi in media un tasso di penetrazione di internet del 55,1% (rispetto a 35% in 2013). Chi può connettersi trascorre su internet 6 ore e 43 minuti al giorno.

Ma cosa succede ogni minuto su internet? Società di business intelligence e data analytics ci offrono ogni anno degli aggiornamenti, con numeri quest’anno resi ancora più pesanti dalla permanenza forzata di fronte a display di ogni genere a causa dei numerosi e ripetuti lockdown. Per esempio, pochi sanno che in un minuto TikTok – il social del momento – viene installato 2.704 volte o che viene speso per gli acquisti online in tutto il pianeta l’equivalente di un milione di dollari.

Non solo: vale la pena soffermarsi sull’intrattenimento che più ci sta facendo compagnia in questa fase. Ebbene, ogni 60 secondi Spotify aggiunge 28 canzoni al suo database, gli utenti WhatsApp condividono 41 milioni di messaggi e gli utenti di Netflix guardano 404mila ore di serie tv, film e cartoon.

Quanto alla produttività, trasferitasi quasi in toto online, a farla da padrona è Zoom (ogni minuto 208mila persone si trovano coinvolti in una call sulla piattaforma) e altri 52mila su Teams, la piattaforma di Microsoft. Su LinkedIn gli utenti si candidano a 69mila posizioni e Amazon spedisce quasi 7mila pacchi.

In termini social, invece, basti sapere che su Facebook vengono caricate 147mila foto (oltre che scambiati 150mila messaggi), su YouTube 500 ore di video e su Instagram 347mila storie, i contenuti che scompaiono dopo 24 ore.

E le emoticon? Se le emoji sarebbero state partorite in Giappone (le prime 176 emoji sarebbero state firmate nel 1999 da Shigetaka Kurita, un dipendente di una società di telecomunicazioni nipponica Ntt Docomo), le più essenziali emoticon devono la loro nascita a Scott Fahlam, un professore della Scuola di Informatica della Carnegie Mellon – oggi ha 72 anni – che nel 1982 sfruttò la punteggiatura per sfornare i basilari smiley sorridenti 🙂 e tristi 🙁 con due punti, un trattino e una parentesi.

L’ultimo punto è forse il più scioccante, per chi consideri internet equivalente al web. Non è così: ciò a cui possiamo accedere con facilità costituisce solo una percentuale minimale delle risorse totali a disposizione. Esistono strati molto profondi della rete, dove i comuni browser non arrivano, ma utilizzati per le ragioni più varie (e non sempre legittime). Si tratta del «deep web», la porzione sommersa e non indicizzata di cui fa parte anche il dark web.

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