Cultura

ALLA RICERCA DELL’ISCHIA SACRA

Ischia non è soltanto una località giustamente famosa in tutto il mondo per le sue bellezze naturali, ma anche uno scrigno di preziose testimonianze storiche, che spaziano dall’VIII secolo a.C. ai nostri giorni.
Le chiese, poco meno di cento, un numero enorme rispetto agli abitanti, costituiscono la punta di diamante di questo patrimonio artistico ancora poco esplorato dagli studiosi e pressoché sconosciuto alle centinaia di migliaia di frequentatori dell’isola.
Le condizioni per usufruire di queste ricchezze sono tutte presenti: i luoghi di culto e le opere esposte sono per la quasi totalità restaurati di recente e aperti dalla mattina alla sera a fedeli e visitatori, al di là degli orari delle funzioni religiose, una cosa impensabile a Napoli, dove chiese famosissime sono negate alla fruizione. I custodi dei luoghi sacri sono sempre gentilissimi e spesso appassionati studiosi.
L’unica pecca era la mancanza, salvo rare eccezioni, di opportune targhette sotto i dipinti e le sculture ed all’ingresso delle chiese, che forniscano ai visitatori le necessarie informazioni sugli artisti e sulle opere esposte. La causa di questa carenza derivava in parte dalla mancanza di uno studio esaustivo ed attendibile scientificamente sul patrimonio artistico, un libro che esponga, con opportune illustrazioni l'”Ischia sacra”. Fino all’uscita del mio volume sull’argomento, frutto di lunghi e difficili studi, dal quale sono state ricavate in quasi tutte le chiese le schede relative ai vari dipinti.

A chi vorrà seguirci in questo affascinante viaggio attraverso le chiese isolane promettiamo la scoperta di inattese gioie per gli occhi e per lo spirito, infatti soprattutto tra i dipinti ve ne sono numerosissimi e di autori di primo piano, da Andrea Vaccaro a Mattia Preti, da Giuseppe Simonelli a Niccolò De Simone, da Marco Pino a Pedro Fernandez, da Giacinto Diano a Paolo De Matteis, da Decio Tramontano ad Evangelista Schiano, oltre ai due indigeni doc Cesare Calise ed Alfonso Di Spigna, mattatore incontrastato di struggenti pale d’altare e tantissimi altri, alcuni ancora da scoprire come l’ignoto allievo di Cavallino della Cattedrale del Castello aragonese o il misterioso ed eccelso autore del trittico del Duomo di Forio.
Tutti i comuni sono ricchi di testimonianze del passato, in particolare Ischia Ponte e Forio ne hanno la maggiore concentrazione, ma come dimenticare Santa Restituta in Lacco Ameno con i suoi severi resti archeologici, Casamicciola, che pur colpita da rovinoso sisma del 1883, ha conservato i reperti artistici più importanti, Barano e Serrara Fontana, dove le scoperte nelle numerose chiesette sparse frazione per frazione, diventano ancora più miracolose e sorprendenti.
Non resta allora che cominciare la lettura, buon viaggio.

Cominciamo con la descrizione dei principali edifici sacri di Ischia porto.

                                    

La Cattedrale dell’Assunta

Dopo la morte, avvenuta nel 1388, di Giovanni Cossa, governatore d’Ischia e di Procida, il figlio Pietro fece edificare sulla spiaggia, a pochi passi dal Castello aragonese, una grande chiesa dedicata alla Madonna della Scala. Di lato venne anche costruito un convento affidato ai padri Agostiniani.
La famiglia Cossa era una delle più illustri dell’isola ed era tenuta in gran conto dalla corte angioina di Napoli. Il fratello di Pietro, Baldassarre, salì al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXIII, anche se, a seguito delle lotte ecclesiastiche che imperversavano all’epoca, nella storia pontificia è considerato un antipapa.
Nei secoli la chiesa è stata tre volte demolita e ricostruita, divenendo solo nel 1810 la chiesa madre della diocesi.
In precedenza la sede vescovile si trovava nell’antica città di Geronda, sita nell’attuale pineta di Fiaiano. Una spaventosa eruzione distrusse tutta la zona e la chiesa madre si trasferì, con l’intera popolazione ischitana, nell’isolotto del Castello aragonese, fino al 1809, quando le cannonate degli Inglesi, posizionati sulla dirimpettaia collina di Sorronzano, distrussero la antica Cattedrale. Le opere d’arte che si salvarono dal disastroso bombardamento furono trasferite nella chiesa dell’Assunta, che da allora divenne la nuova Cattedrale. Il 1809 è anche l’anno della legge con la quale il Murat sopprimeva molti ordini monastici, incamerandone le ricchezze. Anche gli Agostiniani si videro costretti ad abbandonare il loro convento, la chiesa di Santa Maria della Scala e tutti i numerosi beni che possedevano sull’isola, dopo essere stati per oltre quattro secoli una autorevole guida spirituale ed una notevole potenza economica, a seguito delle enormi elargizioni di denaro ed immobili fatte dai fedeli, preoccupati della salvezza delle loro anime.
I canonici, una volta espulsi gli Agostiniani, chiesero al sovrano Borbone, divenuto nuovamente re di Napoli, di poter officiare nella chiesa dei frati, che divenne da allora Cattedrale della Diocesi.
Il tempio presenta un’ampia facciata barocca con tre ingressi protetti da una robusta cancellata ed un elegante mosaico, eseguito da artisti contemporanei, che risalta sulla porta centrale.
L’interno è permeato dalla luce, che prepotentemente illumina ogni angolo delle tre maestose navate, dominate da una cupola di ispirazione bramantesca. Il pavimento marmoreo è del 1912, frutto di una donazione, mentre in alto, al centro dell’arco trionfale, è presente un’effige in stucco di una donna, che la tradizione popolare indica come il volto della moglie di Pietro Cossa, il fondatore della chiesa.
Di lato si erge un’imponente torre campanaria, costruita nel 1596, allo scopo di offrire un rifugio alla popolazione durante le frequenti incursioni barbaresche. Diminuite le scorrerie dei pirati la fortezza venne utilizzata, a partire dal 1613, come campanile.
Numerosi dipinti, prevalentemente settecenteschi, arricchiscono le pareti della cattedrale.
Tra questi i più importanti appartengono al virtuoso pennello di Giacinto Diano, un solimenesco nativo di Pozzuoli. Essi sono un’Annunciazione, un’Assunzione della Vergine, un’Elemosina di San Tommaso da Villanova, un San Nicola da Tolentino, un’Assunta ed un Sant’Agostino con la Santissima Trinità.
Le tele sono opere giovanili dell’artista e possono essere collocate cronologicamente agli anni 1758-60. Alcune sono datate, come la grande pala d’altare dell’Assunzione della Vergine, nella quale possiamo apprezzare un ampliamento dell’orizzonte spaziale e prospettico, accoppiato a stesure cromatiche calde e rassicuranti. Spesso gli schemi compositivi replicano opere del Solimena ed anche del De Mura, con non sopiti echi dello scintillante barocco giordanesco, ben leggibili nell’Elemosina di San Tommaso da Villanova. Nelle altre tele predominano sempre gamme chiare di colore, che danno luogo ad un gradevole effetto pittorico di atmosfera quieta e serena, nel pieno rispetto delle inderogabili esigenze di grazia e di devozione.
Alfonso Di Spigna è presente con un suo lavoro posto sul primo altare laterale sinistro: un San Giuseppe di qualità non inferiore alle tante tele che il lacchese ha disseminato nella chiese ischitane.
In sacrestia sono presenti altri quadri interessanti, in parte provenienti dall’antica Cattedrale, come una tavola rappresentante San Giorgio che trafigge il drago, attribuita, nelle schede della Soprintendenza a Teodoro d’Errico, nome italianizzato del fiammingo Dirk Hendricksz, un importante pittore attivo nella capitale, autore di affascinanti soffitti cassettonati e prestigiose pale d’altare. L’opera ischitana viene collocata al penultimo decennio del secolo XVI, un periodo durante il quale l’artista, sotto l’influsso della maniera tosco romana, comincia a far acquistare al suo linguaggio una desinenza italiana. Sulla tela ha in epoca successiva espresso il suo parere il professor De Castris, massimo esperto del Cinquecento, il quale ritiene che la paternità del San Giorgio spetti ad Ippolito Borghese nella prima fase della sua attività, quando nella sua opera si può evidenziare” un ispirato trattamento luministico ed un’accentuata morbidezza cromatica”. Ed una recente ripulitura ha evidenziato, anche se poco leggibile, la sigla H B.
Tra le altre tele, una gigantesca, con l’effige di monsignor Onorato Buonocore, uomo pio ed erudito, il quale, esperto d’arte, assegnava un quadro, anch’esso presente in sacrestia, raffigurante San Tommaso orante davanti al crocefisso, al Penni, discepolo di Raffaello ed attivo nel viceregno. Il quadro, naturalmente di ignoto, è stato variamente interpretato da altri studiosi, i quali, aiutandosi con una robusta dose di fantasia, hanno visto in esso l’immagine rovesciata di Alessandro VI, realizzata dal Pinturicchio nell’appartamento Borgia in Vaticano.
Senza dimenticare un San Tommaso orante, attribuito dall’Alparone ad un nome di convenzione: Maestro del San Tommaso del Duomo di Ischia, che può essere identificato come ignoto pittore attivo nel primo quarto del secolo XVI, entrato in contatto con la bottega di Pietro Ispano, forse Pedro de Aponte, nome verso cui converge il parere del Leone De Castris, che colloca l’opera entro il 1507,data del ritorno in Spagna dell’artista.
Nella chiesa, oltre ai dipinti, esistono numerose altre opere d’arte, tra le quali, in fondo alla navata sinistra, un raro crocefisso di scuola catalana del 1200, il cui modulo iconografico denota palesemente analogie con alcuni prototipi in area napoletana, come quello del Duomo o della chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli. Anch’esso proviene dall’antica Cattedrale alla pari del Battistero, ricostruito assemblando differenti pezzi provenienti da monumenti distrutti durante il rovinoso bombardamento del 1809. Alcune cariatidi dello stesso provengono con certezza dalla tomba di Giovanni Cossa. Esse sorreggono un pregiato fonte battesimale dove, nel 1654, venne battezzato Carlo Gaetano Calosirto, che diverrà San Giovanni Giuseppe della Croce, il santo isolano le cui spoglie nel 2003 sono tornate nel luogo natio.
Anche lo spettacolare altare marmoreo, realizzato assieme alla balaustra di stile barocco tra il 1746 ed il 1764, proviene dal vecchio tempio.
Degna di nota, in fondo alla navata destra, è la Cappella del Sacramento, dedicata alla Madonna della Libera, la cui immagine ci sorride maternamente da una tavola trecentesca, oggetto di una storica venerazione, davanti alla quale si piegarono in ginocchio ad impetrare grazia o perdono uomini potenti, grandi dame, principi ed anche regnanti. Davanti a lei versò implorante le sue lacrime Vittoria Colonna, mentre il suo amato consorte Ferrante d’Avalos teneva alto l’onore della patria sui campi di battaglia ed egli stesso, migliore spada del Cinquecento italiano, tornando a casa incolume, sostava a lungo davanti alla veneranda immagine per ringraziare degli scampati pericoli.
In conclusione qualche parola va spesa sull’ordine degli Agostiniani, i quali, negli anni, allargando sempre più le loro proprietà, a seguito di continue donazioni, crearono, oltre al principale, altri conventi in diverse località per poter meglio amministrare un sempre crescente patrimonio. Sorse così una nuova residenza di monaci a Barano attigua alla chiesa di San Sebastiano, un’altra a Forio vicino alla chiesa del Soccorso, una a Panza, legata alla chiesa di San Gennaro ed un’altra a Campagnano, in corrispondenza della chiesa di San Domenico.
Importanza notevole per l’economia isolana fu l’introduzione ad Ischia della coltivazione del baco da seta, voluta dai frati Agostiniani, i quali diedero luogo alla prima piantagione di gelso nei loro terreni, ma, generosamente, fornirono le semente anche ai proprietari dei terreni circostanti, facendo sì che in breve la coltivazione si diffondesse a macchia d’olio in tutta l’isola.
In poco tempo l’ordine accumulò cospicue ricchezze, diventando il vero padrone dell’isola.
Tutto finisce nel 1809 con il decreto di soppressione degli ordini religiosi emanato da Gioacchino Murat, il quale volle, astutamente e non per spirito di laicità, impossessarsi delle enormi ricchezze che i religiosi nel regno di Napoli avevano accumulato nei secoli.

 

Chiesa dello Spirito Santo

Poco distante dalla Cattedrale, sull’altro lato della strada, sorge la chiesa Collegiata dello Spirito Santo, costruita tra il 1636 ed il 1676. Originariamente, sul posto ove oggi sorge il sacro edificio, si trovava una cappella dedicata a Santa Sofia di proprietà della famiglia Cossa. Essa, intorno al 1570, fu adattata a luogo di culto dei marinai del borgo di Celsa, mentre il titolo parrocchiale dalla chiesa di San Vito a Campagnano, vi fu trasferito, per decisione del vescovo Fabio Polverino, nel 1580. Inoltre tutti i fedeli si tassarono, dedicando una parte dei guadagni prodotti dalle loro attività ad un programma di assistenza materiale e spirituale. A tale scopo, nel 1613, di fianco alla congrega, fu edificato un piccolo ospedale, che funzionò per alcuni decenni. Nel 1672 i lavori di ampliamento terminarono e la chiesa fu aperta al culto di tutti gli abitanti del quartiere. Nel 1851 il pontefice Pio IX la elevò al titolo di Collegiata con un capitolo di canonici.
La Collegiata dello Spirito Santo è sede della venerazione di San Giovanni Giuseppe della Croce, un francescano alcantarino (Ischia 1654- Napoli 1734), le cui spoglie sono da poco ritornate nell’isola natia dopo una lunga permanenza a Napoli, dove morì, con grande giubilo della popolazione legata ad un culto molto sentito al Santo, una figura di spicco nella storia religiosa napoletana del Settecento.
La chiesa ha pianta basilicale a croce latina, con navata unica e tre cappelle per lato. Una breve scalinata conduce all’ingresso. La facciata, dalle linee molto semplici, è decorata soltanto in alto da una finestra trilobata sopra il portale. Sul lato destro vi è la torre campanaria, di forma piramidale, sormontata da una cupoletta a pera, rivestita da mattonelle smaltate gialle e verdi. All’incrocio della navata con il transetto è presente una bassa cupola, che all’estradosso porta un tetto spiovente poggiato sui muri perimetrali.
L’interno è particolarmente ricco di opere d’arte, tra cui un affresco, conservato in sacrestia, raffigurante il Castello, del XVI secolo ed un baldacchino d’argento del XVIII secolo.
Entrando, a sinistra, ci accoglie un originale fonte battesimale ottocentesco, mentre sulla controfacciata vi è una tela del 1709 di un ignoto pittore campano, raffigurante San Francesco Saverio che battezza un negretto. Nella prima cappella a sinistra una Madonna con Bambino e Santi, esito del pennello di un artista di ambito provinciale ispirato ai modi di Francesco Solimena. Sull’altare della terza cappella a sinistra una Madonna del Rosario contornata da quindici telette raffiguranti i Misteri. L’Alparone trovò nell’archivio della Collegiata un documento di pagamento di trenta ducati al pittore Giuseppe Bonito per l’esecuzione dell’opera in questione. Il quadro, eseguito nel 1786 utilizzando una vecchia tela, ha dislivelli qualitativi tra il volto della Vergine, molto bello e dolce, sicuramente autografo e la parte inferiore, alla quale partecipa la bottega.
Nei due transetti vi è una coppia di altari in marmi policromi molto belli, eseguiti dal marmoraro Antonio Di Lucca nella seconda metà del Settecento. Il paliotto dell’altare di destra fu modificato nel 1797 per inserirvi il contenitore delle reliquie di San Pio.
Sull’altare del transetto sinistro fa bella mostra una Madonna delle Grazie con le anime purganti di Paolo De Matteis, firmata e datata 1710. La Vergine, seduta in alto tra le nubi col Bambino, fa grondare dal seno copiose gocce di latte ad un gruppo di anime purganti, che, caldamente, la implorano. La tela è impregnata di grazia raffinata e di misurata eleganza compositiva, attraverso l’uso di stesure cromatiche dalle tonalità preziosamente rischiarate, che precorre il gusto rocaille. Il De Matteis realizza nel dipinto ” una perfetta sintesi tra colore e disegno, contenuto e forma, in ossequio a quella vena di ritrovato classicismo” (Rolando Persico), che contraddistingue le sue opere più riuscite.
L’altare maggiore in marmi policromi è opera di collaborazione tra un eccellente marmoraro napoletano ed un ignoto scultore, autore dei cherubini che impreziosiscono i due capialtari ed il ciborio. La balaustra riprende motivi di grande successo, introdotti in area napoletana da Niccolò Tagliacozzi Canale nella zona presbiteriale della Certosa di San Martino.
Nella parete di fondo dell’abside è collocata una Pentecoste, realizzata nel 1768 dal Di Spigna, una composizione animata da un moto circolare di grande dinamismo, che ci fa apparire il pittore lacchese aggiornato sui modi della pittura napoletana degli anni Sessanta, di ispirazione accademica.
Sulle pareti dell’abside è presente una serie di quattro rilievi in stucco modellato, rappresentanti, partendo da sinistra: San Giovanni Evangelista, Santo evangelista(?), Sant’Andrea e San Giacomo. Essi furono realizzati nel 1768 da Cesare Starace, quando l’artista eseguì anche la cornice di stucco per il quadro della Pentecoste.
In una nicchia posta nell’altare del transetto destro vi è una scultura a manichino rappresentante San Pio, adagiato su una bara in legno intagliato e dipinto, decorata da profilature dorate. Sull’altare vi è un Crocifisso, fine Settecento, in legno scolpito e dipinto, caratterizzato da un accentuato pietismo, che riprende schemi iconografici importati dalla Spagna il secolo precedente.
Sull’altare del transetto destro vi è un Calvario, eseguito da Giuseppe Bonito, probabilmente nel 1768, sagomato attorno al Crocefisso illustrato precedentemente. La tela è una replica autografa di quella eseguita nel 1757 per la chiesa napoletana di San Giovanni e Santa Teresa all’Arco Mirelli. L’opera presenta chiari segni di classicismo, che in ambito napoletano si manifestavano in quegli anni sotto l’influsso della pittura romana.
Nella terza cappella del lato destro trova posto una Annunciazione, datata 1776, da attribuire al poco noto Vincenzo Diano, del quale non si conoscono legami di parentela con il più noto Giacinto, attivo nella vicina Cattedrale. La paternità della tela si basa su convincenti raffronti con gli affreschi dipinti dall’artista nel monastero di Santa Caterina da Siena nel 1777.
Nella nicchia sull’altare della seconda cappella a destra vi è una scultura rappresentante San Pietro, opera di un artista napoletano ispirato ai modi di Giuseppe Picano, da cui riprende pedissequamente lo schema della capigliatura e della barba condotta per volute.
Nella sacrestia, in un elegante mobile per arredi, di artigianato campano della prima metà del secolo XIX, sono conservati vari oggetti sacri d’argento, tra cui segnaliamo uno splendido calice punzonato dall’argentiere Gennaro Russo, attivo con due statue nella cappella del Tesoro del Duomo di Napoli.
In sacrestia vi è pure una Traditio clavium, un raro tema iconografico eseguito dalla bottega di Fabrizio Santafede.
Il dipinto è stato studiato dall’Alparone, il quale, nell’assegnarlo al pennello del maestro, operava dei raffronti con il Cristo e la Samaritana della quadreria del Pio Monte della Misericordia e con il Cristo ed i figli di Zebedeo della pinacoteca dei Gerolamini. La tela in esame, pur essendo di notevole qualità, tradisce però una certa durezza di esecuzione, che contrasta con la consueta dolcezza dei dipinti del Santafede. La Scricchia Santoro, in una sua comunicazione orale, ha avvicinato l’opera al catalogo di Giovan Bernardo Azzolino, non avendo riscontrato quei caratteri di arrotondamento e di addolcimento tipici nelle fisionomie santafediane. Una particolare attenzione è stata dedicata dalla Rolando Persico, nella sua monografia sui dipinti delle chiese ischitane e dal Borrelli, nel redigere la scheda per la Soprintendenza, alla figura in basso a destra del committente, trovando una somiglianza con il donatore che compare nel dipinto di Carlo Sellitto conservato nella chiesa di Aliano in provincia di Matera. Raffronto che, a nostro parere, è del tutto arbitrario, essendo il ritratto del committente del Sellitto un vero capolavoro impregnato del più schietto naturalismo, che cominciamo a riscontrare in area napoletana dopo la venuta del Caravaggio, non prima del secondo decennio del Seicento, mentre la Traditio clavium ischitana va collocata cronologicamente almeno venti anni prima.
Sistemato attualmente sulla parete destra della controfacciata della chiesa, vi è un olio su tavola con la Madonna, Bambino e Santi, che venne ritrovato nel 1969 dietro il quadro raffigurante la Pentecoste, sito sull’altare maggiore. Attribuito dall’Alparone in un primo momento a Marco Pino, fu, prudentemente, dallo stesso studioso, assegnato, dopo un più attento esame, ad un collaboratore della bottega. Si può ipotizzare il nome di Michele Manchelli, genero del maestro, che, come risulta dai documenti, riprende i moduli del suocero in molte opere, senza però raggiungerne i livelli qualitativi.
Sempre sulla controfacciata destra si trova una Madonna della Salvazione, opera di un ignoto attivo nella prima metà del secolo XVII. La Vergine è seduta su delle nubi ed ha sulle gambe il Bambinello, il quale regge uno scettro con cui indica un gruppo di barche di pescatori dirette verso l’isola di Ponza. Un classico ex voto donato da scampati ad una tempesta.
E per finire, nella prima cappella a destra, si trova una tela di un certo interesse, rappresentante la Sacra famiglia con Sant’Anna, San Gioacchino e San Giovannino, da confrontare con la tela omonima, conservata nella sacrestia della chiesa dei santi Filippo e Giacomo a Napoli ed assegnata a Fabrizio Santafede. La tela della chiesa ischitana ricalca pedissequamente, con qualità molto più bassa, il quadro napoletano di cui con precisione ripete “dettagli, atteggiamenti, espressività, intensità di sguardi, tutti elementi che concorrono a ricreare quella sorta di atmosfera familiare ed intima che si riscontra in numerose tele santafediane”(Rolando Persico).

 

Arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli

Addossata alla chiesa dello Spirito Santo, con un’ampia gradinata d’accesso, sorge l’Arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli, fondata nel 1613 dagli artigiani del borgo d’Ischia, i quali vollero staccarsi da marinai e pescatori, assieme ai quali avevano fondato nel secolo precedente lo Spirito Santo, per creare un autonomo Oratorio laico, che entrò in funzione nel 1626 e fu ristrutturato completamente nel 1693. In essa per decenni si sono tenuti accesi dibattiti consiliari. Il 25 agosto 1794 il Capitolo Vaticano incoronò la statua della Madonna, conservata all’interno e risalente al secolo XVIII, che nei giorni di festa viene ricoperta di abiti ed oggetti preziosi. Molto venerato è anche il medaglione del paliotto raffigurante la Madonna del Melograno, che certamente costituiva la parte centrale di un sarcofago smembrato, proveniente dal Castello.
Il portale d’ingresso della Confraternita è molto grazioso ed elegante ed è preceduto da un atrio scoperto, chiuso da una bassa facciata, dietro la quale se ne trova una seconda dalle linee più semplici. L’interno, ad unica navata, è coperto da una volta a botte lunettata e fasciata. In alto, nella lunetta degli archi laterali, si rilevano affreschi illustranti episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nell’ambiente adiacente, adibito a sacrestia, si sviluppa una avvolgente scala rampante.
La famiglia di San Giovanni Giuseppe abitava nella zona ed un suo ritratto ci ammonisce severo dalla balaustra dell’organo, mentre altri dipinti sono conservati in sacrestia, come una Sant’Anna e la Vergine bambina ed una Visione di San Francesco Saverio, entrambi modesti ed a carattere devozionale.
Sulla mensola del coro vi è un Cuore di Gesù, attribuibile a Giacinto Diano, intorno al 1770, quando l’artista abbandonando i modi demuriani, cominciò a stemperarsi in grazia accademica. Nella chiesa vi è un solo altare in marmi policromi, databile alla seconda metà del XVIII secolo, con al centro una cona.
Sulle pareti destra e sinistra scorre un maestoso coro, dal disegno simile a quello conservato in Santa Maria Visitapoveri a Forio. Esso è composto da una triplice fila di sedili con parapetti e balaustri, intervallati da scalini e fu eseguito quando la Congregazione si trasformò in Arciconfraternita.

 

Chiesa dell’Annunziata

Imboccando la strada di Campagnano ci imbattiamo nella Cappella di San Pietro, chiusa da tempo immemorabile, di fronte alla quale sorgeva una Cappella gentilizia della famiglia Agnese. La prima era una volta povera di addobbi ed arredi, mentre l’altra ne abbondava. La chiesetta di San Pietro, conservava l’effige del Santo titolare, trasportata dall’omonimo tempietto del Castello, che era in rovina per vetustà. Essa rappresentava l’antica nobiltà enariana, poggiata sugli antichi privilegi concessi loro dai reali spagnoli, mentre la vicina era il simbolo della più recente nobiltà ischitana, basata per intenderci non sulle pergamene, bensì sulle sonanti piastre e sui rotoli di luccicanti marenghi.
Giunti nella piazza principale incontriamo la chiesa dell’Annunziata, la cui facciata, adorna di uno splendido rivestimento maiolicato, domina la passeggiata del piccolo borgo. Nasce nel 1602 come chiesetta rurale ad opera dei contadini del villaggio, che si accollano le spese di manutenzione; viene in seguito dedicata a San Sebastiano ed a lungo si è praticata la venerazione dell’Annunciazione di Maria. A fronte del luogo di culto si creava un’atmosfera da “Sabato del villaggio”, magistralmente descritta dal D’Ascia nel suo libro sull’isola d’Ischia, vera e propria miniera di notizie e di aneddoti. Gli cediamo la parola:
“Quivi i vecchi contadini, le graziose forosette e le brune villanelle nell’ora del tramonto dei dì festivi, vanno a raccogliersi e salutare la Nostra Signora con armoniose cantilene. Quivi la pace dello spirito ed il disprezzo degli umani fasti, si mescolano in quelle poste di rosario che va cantato in coro fra quei rustici abitanti del villaggio. Quivi nelle sere dei sabati di primavera, le giovinette del villaggio accorrono ad offrire alla Madonna i loro mazzolini di viole selvagge e gelsomini campestri, mescolati alle ciocche di bionde fiorite ginestre; purissimi fiori non profanati dall’alito del cortigiano e dal sospiro dell’adulatrice, raccolti su i poggi incantati, sulle amene colline e su i margini dei prati di quelle campagne”.
Per moltissimo tempo non abbiamo documenti sulla chiesa e non sappiamo quando sia avvenuto il cambio di titolo e se lo stesso sia derivato dalla costruzione di un nuovo edificio. Siamo a conoscenza soltanto che nel 1707 vi fu fondato un Pio Monte di fratelli e sorelle, dedicato alla Madonna delle Grazie ed annesso all’ omonimo altare che si trova nella crociera. Un ampio restauro è stato eseguito nel 1792.
La facciata è divisa in due registri, uno superiore dominato da un rivestimento maiolicato ed uno inferiore con il portale d’accesso; nella parte superiore due lesene ioniche sostengono il frontone triangolare con il timpano, mentre ai lati sono posti due campanili, uno dei quali completato da una piccola cupoletta a pera. La decorazione parietale, opera di un ignoto maiolicaro campano, è datata 1896 ed è costituita da un rivestimento di mattonelle di maiolica con croce di malta al centro e fiore stellato negli angoli. Le due scene rappresentano la Visione di San Giovanni Giuseppe che riceve il Bambino dalla Madonna e l’Annunciazione alla Vergine.
L’interno è a croce latina con un ampio transetto, che prende luce da caratteristiche finestre trilobate, mentre un arco inquadra le cappelle laterali. La cupola, priva del tamburo, ma con un luminoso lanternino si innesta all’altezza del transetto.
All’interno della chiesa, nel transetto, a destra e sinistra, vi è una coppia di altari, datati 1634, costituiti da paliotto, pilastrini laterali, predella a doppio gradino e ciborio decorati a commesso con motivi geometrici.
Sull’altare del transetto sinistro è collocata una tela firmata e datata, Bartolomeo Viano 1786, raffigurante l’Estasi di Santa Teresa. La scena inquadra la Santa che, accasciata, regge un cuore con la mano destra, mentre un putto impugna una freccia. La cromia della tela imita il pastello e presenta uno stile simile a quello di Giacinto Diano, del quale il Viano, assolutamente sconosciuto alla critica, potrebbe essere stato allievo.
Sull’altare del transetto destro vi è una Madonna delle Grazie con San Pietro e San Vito, di un ignoto artista di ambito provinciale, autore anche della tela posta sull’altare maggiore.
Nella zona absidale, nei pressi dell’altare, vi sono una serie di dieci candelieri di artigianato campano del secolo XIX ed una Croce, con Crocifisso in legno intagliato e dipinto d’argento ed una grossa base sulla quale è raffigurata un’Annunciazione.
L’altare maggiore, eseguito nell’ultimo quarto del secolo XVIII, presenta due reggimensa impreziositi da un paliotto ad urna decorato a commesso ed un elegante ciborio a baldacchino con porticina d’argento punzonato.
Entrati in sacrestia una lapide ricorda la figura del canonico Mazzella, al quale si deve la completa ricostruzione della chiesa, durata dieci anni, a partire dal 1771. Nella cassaforte una preziosa corona, in argento fuso e dorato, decorata a traforo da rose, motivo fogliaceo e volute, opera di un argentiere siglato “FDL”, operante alla fine del secolo XIX.
Ed infine, proveniente dalla chiesa di San Vito a Campagnano, già parrocchia e demolita nel dopoguerra, una Madonna delle Grazie, Santi ed anime purganti, opera di un modesto artista locale, che bizzarramente ci ha lasciato il suo autoritratto nelle fattezze di uno degli spiriti purganti.

 

Chiesa di San Domenico

Percorrendo la via Nuova Cartaromana, in direzione di Campagnano, incontriamo in località Cappella la piccola chiesa della Madonna del Carmine, costruita dalla famiglia Scoti nel Settecento, che non presenta alcun interesse artistico.
Poco più avanti ci imbattiamo nella superba torre detta di Michelangelo, importante, oltre che per la mole, perché conserva in alcune sale affreschi cinquecenteschi. Alla sua base, quasi sfiorando le onde del mare, sorge la chiesetta di Sant’Anna, edificata nella prima metà del secolo XVI, famosa perché ha dato luogo alla festa di Sant’Anna, una delle più note dell’isola. Per secoli il 26 luglio, onomastico della santa, una miriade di barche portava in pellegrinaggio gruppi di fedeli che, oltre alla preghiera, consumavano robuste colazioni a base di melanzane innaffiate da buon vino locale. A partire dal 1934, si pensò di addobbare le barche che si recavano in processione. Nacque così, per la gioia di turisti ed indigeni, la festa odierna, con eleganti imbarcazioni allegoriche cariche di luci, di festoni e di belle figliole, scoppiettanti fuochi d’artificio, ogni anno a mezzanotte nello specchio d’acqua compreso tra il Castello Aragonese e gli scogli di Sant’Anna.
Arrivati nella zona di Cartaromana e superato il cimitero si incontra la chiesa di San Domenico, che servì in passato l’omonimo convento di Padri predicatori, fondato nel Trecento e soppresso nel 1653.
Nata come chiesa rupestre nel 1469 ha funzionato per circa due secoli, fino a quando, in esecuzione di una Bolla di Innocenzo X del 1652, il convento fu chiuso perché abitato soltanto da tre frati. L’edificio attuale non è quello originario, completamente distrutto dal terremoto del 1557, bensì uno successivo ampiamente ingrandito negli anni Settanta dell’Ottocento. L’ultima ristrutturazione risale al 1984. L’opera più importante e più antica conservata è una Madonna del Rosario, recentemente restaurata. Dal 1657 fu istituita la sede parrocchiale ed il primo a servirla fu don Domenico Chillà, un calabrese.
Al periodo delle soppressioni degli ordini religiosi i beni dei Domenicani furono devoluti al Seminario d’Ischia, il quale, in seguito, ha dato ogni anno cinquanta ducati per la manutenzione dell’edificio al parroco che abitava nelle stanze del ex convento.
Dopo il Concordato del 1818 tra il re Borbone ed il Papa tale elargizione, raddoppiata, fu trasformata in congrua. In seguito anche il comune cominciò a dare un suo contributo.
Durante l’epidemia di colera del 1836 la sede parrocchiale fu momentaneamente trasferita, perché gli edifici attigui alla chiesa vennero adibiti ad ospedale.
Nel tempo alcune Confraternite, del Rosario e del Nome di Gesù, si appoggiarono all’edificio sacro per la sepoltura dei loro iscritti. A queste si aggiunsero quella del Crocifisso e quella di San Raimondo, denominate dei vergini, perché in esse si seppellivano fanciulli e bambine.
La Madonna venerata è quella della Misericordia, per la quale, a partire dal 1870, per decenni, si teneva una grande processione indipendentemente dalla festa di San Domenico.
Entrando in chiesa, sulla destra, si è accolti da una lastra tombale la cui epigrafe , apposta nel 1725, ricorda la famiglia Mele originaria di Melito, mentre sul lato sinistro si trovano un’acquasantiera a forma di conchiglia di metà Ottocento, che riprende uno schema ampiamente diffuso all’epoca ed un elemento di fonte battesimale a forma di coppa, con piede circolare, decorata da nervature.
Sull’altare della navata destra è collocato il più antico e venerato dipinto della chiesa: una Madonna del Rosario, olio su tavola di ignoto cinquecentesco di ambito provinciale ispirato ai modi napoletani, che riprende un’iconografia molto diffusa dopo il Concilio di Trento, con la Vergine in trono che dà il rosario a Santa Rosa, mentre il Bambinello lo porge a San Domenico.
Nella parte destra del presbiterio, in una nicchia, trovasi una scultura lignea policroma settecentesca, raffigurante San Domenico, opera di un ignoto scultore campano, mentre sul lato sinistro, sempre in una nicchia, si trova una scultura a manichino raffigurante la Madonna, vestita con un elegante abito bianco, ricamato in oro con motivi fogliacei e floreali.
Sulla parete di fondo dell’abside vi è un dipinto raffigurante la Madonna col Bambino e San Domenico, eseguita sul finire del secolo XVIII da un ignoto pittore locale, ispiratosi alla tela di medesimo soggetto realizzata da un allievo di Giuseppe Bonito nel 1786 per la chiesa dello Spirito Santo ad Ischia Ponte.
L’altare maggiore in marmi policromi presenta pilastri reggimensa, paliotto, pilastrini laterali, predella a doppio gradino e ciborio decorati a commesso con motivi geometrici.
Ed infine in sacrestia sono conservati numerosi pezzi sacri in argento, tra i quali ricordiamo un ostensorio, datato 1907, decorato secondo moduli di stile floreale ed una navicella punzonata “PC”, eseguita tra il 1824 ed il 1832.

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