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Cioccolato: dal 2038 potrebbe finire per sempre

Com’è vivere senza cioccolato? Dovremmo cominciare a chiedercelo dato che dal 2038 potrebbe finire per sempre, o restarne così poco da diventare un prodotto per ricchi. Il perché lo spiega la geopolitologa Virginie Raisson in 2038 Atlante dei futuri del mondo (Slow Food Editore): nuovo libro che collega questioni mondiali come il riscaldamento climatico o la globalizzazione con le loro conseguenze, inclusa la scomparsa di cibi preziosi e amati come – appunto – il cioccolato.

TUTTI VOGLIONO IL CIOCCOLATO
Una «nuova rarità»
, come lo definisce l’autrice: il cioccolato, come spiega nel suo libro, scarseggia anzitutto perché tutti ora vogliono il cioccolato, cominciando dai cinesi. Il consumo cinese medio di cacao, che nel 2010-2011 superava a malapena i 40 g pro capite annui (contro il range europeo da 1 a 6 kg) è infatti aumentato del 75% tra il 2010 e il 2014 e, in generale, per via dell’aumento dei redditi e della standardizzazione dei gusti dovuta alla globalizzazione, è proprio in Asia che si giocherà il futuro del cibo degli dei: è qui che si registrano gli aumenti più significativi, ed è per questo mercato che la domande di fave di cacao ha superato la produzione, imponendo già negli ultimi anni il ricorso alle riserve.

CAMBIAMENTI CLIMATICI E CACAO
Intanto produrre cacao – che è già una delle piante più delicate e lente nella crescita (impiega da tre a cinque anni per produrre i primi frutti) – diventa sempre più difficile, in primis perché i cambiamenti climatici mettono a dura prova le piantagioni: la siccità, per esempio, sta distruggendo le coltivazioni di Costa d’Avorio e Ghana che, fino a qualche anno fa, da sole assicuravano i due terzi della produzione mondiale. A differenza dell’America Latina, dove i coltivatori possono adattare le colture spostandole su rilievi montuosi, nel caso dell’Africa le nuove piantagioni di cacao richiedono disboscamento contribuendo così all’effetto serra e l’alternativa è forse anche peggio dato che, chi lascia il cacao, lo fa per coltivazioni più remunerative che però mettono a rischio la biodiversità (come l’hevea, albero della gomma). Se il cacao scarseggia, infatti, è anche perché i contadini sono pagati troppo poco per essere invogliati a perseverare, investire in sistemi di irrigazione o anche in formazione: 0,5 dollari al giorno in Costa d’Avorio e 0,8 dollari al giorno in Ghana è la media dei compensi percepiti da un contadino per curare le piante, raccogliere i frutti, estrarre le fave e poi selezionarle. Il vero tesoro che deriva dalla produzione del cacao, infatti, è nelle mani di grossisti, distributori e produttori di cioccolato.

COSA FARE
Perciò, mentre la scienza è al lavoro per trovare cultivar resistenti, in grado di subire lunghi periodi di siccità come in Africa conservando i sapori delle specie locali, la differenza – come ricorda Virginie Raisson – la possiamo fare noi scegliendo cioccolato fatto con cacao proveniente da filiere sostenibili: filiere in cui, cioè, ogni attore della catena abbia il giusto compenso e le coltivazioni rispettino l’ambiente. Su questo già diverse aziende si stanno muovendo con programmi come Cocoaction -iniziativa della World Cocoa Foundation alla quale hanno già aderito 11 marchi – che in Ghana e Costa d’Avorio garantisce la formazione dei coltivatori, la fornitura di piante e fertilizzanti e migliora la condizione femminile. Servirebbe una mobilitazione di massa, come è successo per l’olio di palma.

IL FUTURO (MENO DOLCE)
L’alternativa? Un futuro molto meno dolce in cui il cioccolato sarà solo d’élite perché quel poco che resterà costerà moltissimo, e al suo posto si faranno ancora più spazio prodotti venduti come cioccolato ma che hanno un basso contenuto di cacao, compensato da olii, zucchero e latte: prodotti tendenzialmente molto ricchi di grassi, che della bontà e delle proprietà benefiche del vero cioccolato non hanno proprio niente.

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