Qui ed ora

Coronavirus a Napoli, guarito il paziente 1: «È come in guerra, non uscite di casa»

È tornato a casa dopo 25 giorni. Ha avuto una polmonite, problemi di respirazione, febbre alta, ma alla fine ce l’ha fatta. È guarito. E di fronte a quel terzo tampone negativo si è sentito fortunato, rispetto al dramma di tanti ricoverati in ospedale, al Cotugno, e rispetto alle condizioni di tantissimi contagiati nel mondo. Eccolo Francesco, l’avvocato cinquantenne destinato ad essere ricordato come «paziente uno», il primo caso di contagio a Napoli da corona virus, intervistato da Il mattino. Da ieri è tornato a casa, con i postumi di una brutta polmonite, ma fuori pericolo. Un sopravvissuto a tutti gli effetti. Ha abbracciato moglie e figlio, ha ripreso a pieno ritmo i contatti con lo studio Di Monda and partner, in particolare con gli altri sette colleghi rimasti contagiati: «Stanno tutti bene – spiega Francesco – con il collega Raffaele Di Monda abbiamo organizzato ben dodici piattaforme di lavoro per impostare la nostra nuova frontiera ai tempi della pandemia».

Avvocato, 25 giorni al Cotugno, cosa prova ora che è finita?
«Un sentimento di immensa gratitudine verso chi mi ha curato. Medici, infermieri, barellieri, personale sanitario, il primario, la direzione dell’ospedale. Ho visto persone lavorare senza sosta anche per quattordici ore al giorno, lì dentro non sei mai solo, lì dentro nessuno si sottrae».

Un’esperienza drammatica, la sua.
«Nel dramma di una degenza lunga e impegnativa, mi sento fortunato. Ho ricevuto una terapia d’urto che è risultata efficace, anche se mi porto addosso i postumi di una polmonite».

Quale messaggio intende veicolare dopo questa esperienza?
«È una guerra. Mi sento un reduce di guerra. E gli ospedali sono come gli ospedali da campo allestiti in trincea. Un concetto che non è chiaro a tutti, almeno secondo quanto ho avuto modo di vedere venendo a casa dall’ospedale».

A cosa fa riferimento?
«Sono tornato a casa in auto con mia moglie e ho visto ancora tante persone per strada. Abito in un quartiere del centro di Napoli e ho visto persone che ciondolano con il cane al guinzaglio, altri che stazionano in strada con buste della spesa. Non è questo il modo di comportarsi in guerra, così si finisce di dare una mano al nemico invisibile che si chiama corona virus. Mi auguro che ci sia una quarantena più rigorosa in questo fine settimana, non abbiamo altri modi per respingere l’assalto del virus».

Quali sono stati i sentimenti prevalenti durante la sua degenza?
«La paura di non rivedere più mia moglie e mio figlio. Sei lì nel lettino, respiri con l’ausilio di uno strumento, ti affidi completamente a medici e infermieri, che sono costretti a lavorare completamente ricoperti, dalla testa ai piedi, come dei palombari. Ma non mi hanno mai lasciato solo e hanno sempre provato a motivare ogni loro intervento. Ci sono stati momenti dolorosi, ma preferisco non entrare nei particolari».

Cosa le ha dato forza in questi giorni?
«Un po’ tutti quelli che mi sono stati vicino. Mi riferisco alle telefonate dei giornalisti, ai colleghi di lavoro che non hanno mai smesso di incoraggiarmi, al mio vicino di letto, per passare poi – ovviamente – alle telefonate dei miei parenti».

Un mese dopo trova un paese ancora alle prese con la pandemia, con una quarantena imposta da governo e Regione, che andrà avanti ancora per diverse settimane. Che ne pensa delle scelte messe in campo per fronteggiare il virus?
«È fin troppo facile dire, con il senno di poi, che si sono mossi in ritardo, prendendo sotto gamba il problema. Mi chiedo come sia potuto accadere, eppure a febbraio avevamo tutti negli occhi le immagini di quanto accadeva in Cina. Abbiamo agito con imprudenza, bisognava allestire tensostrutture dove portare le persone che manifestavano i primi sintomi, bisognava cinturare le aree rosse».

Lei ha contratto la malattia a Milano, cosa ricorda di quel periodo?
«Credo che il contagio sia avvenuto a Milano, dove abbiamo uno studio, ma non c’è la prova. Non sappiamo da quanto tempo circolava il virus nel nostro Paese e anche qui a Napoli».

Eppure lei è stato definito il «paziente uno» napoletano.
«Perché, come ormai tutti ricordano, sono stato il primo a chiedere con insistenza che mi venisse praticato il tampone, anche se non avevo febbre altissima. Ancora oggi mi chiedo perché lo Stato non investa in un settore cruciale come la sanità».

Torniamo alla definizione di paziente uno, come si è comportato dopo aver intuita la possibilità del suo contagio?
«Abbiamo agito con tempestività e buon senso. Abbiamo avvisato l’Asl, il consiglio dell’ordine degli avvocati e abbiamo chiesto di rinviare le udienze. Se tutti si fossero comportati così, oggi ci sarebbero meno contagiati».

 

Potrebbe piacerti...