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Daniela Cristofori, moglie di Giacomo Poretti: “Così il coronavirus si è appropriato delle nostre vite”

Prima si è ammalato il marito, poi lei, poi di nuovo lui. Così hanno affrontato e gestito la malattia, e le paure più grandi («Proteggere nostro figlio, e i miei genitori entrambi positivi in Rsa»). E ora la psicoterapeuta e attrice prova a guardare al futuro: «Possiamo ricostruircelo».

Giacomo Poretti, colui che dal 1991 è Giacomo di Aldo, Giovanni e Giacomo, ha raccontato di recente (ad Altre storie di Mario Calabresi) di essere stato anche lui contagiato dal coronavirus. L’attore e comico, fortunatamente, non ha avuto bisogno del ricovero in ospedale, si è curato nella sua casa di Milano, tetto che condivide con la moglie Daniela Cristofori, psicoterapeuta, attrice e regista teatrale, anche lei «positiva». E qui ci racconta l’altra metà della «storia». «Dopo il periodo di Carnevale, tornati dalla settimana bianca in montagna, il 7 marzo Giacomo ha cominciato a stare male.

Ha avuto la febbre per tre giorni e poi sembrava essere guarito». Nel frattempo, si è ammalata lei: «Ho avuto la febbre ma non molto alta, e ho perso completamente gusto e olfatto». E quando Daniela iniziava a sentirsi meglio, è stato il marito ad avere un’altra ricaduta: «Gli è tornata la febbre, sempre più alta».

Come vi siete curati?
«Abbiamo avuto la fortuna di prendere il virus in forma leggera, per molti purtroppo non è stato così. Non avendo problemi respiratori, ci siamo isolati in casa rimanendo sempre in contatto con i nostri amici medici. Praticamente ci siamo divisi la casa. Giacomo è andato a dormire sul divano letto del suo studio, io sono rimasta in camera. Abbiamo iniziato a indossare la mascherina anche in casa. E nonostante la forte spossatezza che provoca il virus, mi sono messa a disinfettare qualsiasi angolo di ogni stanza. La nostra priorità è sempre stata una: proteggere nostro figlio Emanuele».

Quanti anni ha?
«Tredici, ed è figlio unico. All’inizio era lui che usciva, con le dovute protezioni, per andare in farmacia, a far la spesa. Ma quando i medici ci hanno detto che era meglio evitare perché poteva essere asintomatico e quindi fonte di contagio, in nostro soccorso sono arrivati gli amici, i vicini. Erano loro che andavano a fare la spesa, a prendere le medicine e ci lasciavano tutto dietro la porta. Gesti di solidarietà bellissimi. Non mi aspettavo che i vicini, con cui di solito si scambia giusto qualche parola, potessero essere così disponibili, così d’aiuto».

Di cosa ha avuto più paura?
«Ho avuto paura per nostro figlio. “Se ci dovessero ricoverare in ospedale, con chi rimane?”, questo interrogativo era sempre nei miei pensieri. Alla fine ci eravamo messi d’accordo con una coppia di amici, l’avrebbero preso loro in casa. Con le dovute precauzioni, ovviamente. E poi c’è sempre stata la preoccupazione per i miei genitori che sono in una Rsa».

Come stanno?
«Al momento sono entrambi positivi al Covid-19. Mia mamma ha 87 anni, mio padre 91, sono chiusi lì dentro e non li vedo da mesi. Prima le visite sono state diradate, quando poi le cose sono precipitate le hanno interrotte, e hanno iniziato a proteggere gli ospiti e il personale. Alcuni medici si sono ammalati e purtroppo ci sono stati decessi tra gli ospiti. È mancato il compagno di stanza di mio padre quando ancora non erano disponibili i tamponi all’interno della struttura. Il giorno di Pasqua ho ricevuto una chiamata dal medico, anche mio padre stava male. Non saturava bene, ma sono intervenuti subito con cure e ossigeno. Quando sono arrivati i tamponi e l’hanno testato è risultato positivo. Adesso, per fortuna, sta meglio. L’Rsa ha creato un reparto Covid, ha diviso gli ospiti e ha acquistato altri tamponi privatamente. E anche mia madre è risultata contagiata anche se è asintomatica. Mio padre dovrebbe rifare il tampone a breve per vedere se si è negativizzato. La situazione, certo, è difficile però in questo caso specifico a mio avviso è stata gestita in modo serio. Spero, però, in futuro che nessuno si dimentichi degli anziani nelle Rsa. Loro, con il loro enorme attaccamento alla vita, dovrebbero essere di grande lezione per noi».

Come trascorreva le giornate?
«Appena sono stata meglio ho ripreso a lavorare online con i miei pazienti. E mi è venuta l’idea di lanciare delle «pillole di psicologia» sul canale Youtube del teatro Oscar, ora ovviamente chiuso. In questo periodo, oltre che di salute del corpo, si è parlato anche di salute della mente. Si ha più rispetto per i lavoro dei medici ma anche per quello degli psicologi. E l’arte insieme alla psicologia è uno strumento che aiuta a tirare fuori il dolore, a trasformarlo. Queste “pillole” sono state curative anche per me».

E suo marito Giacomo come l’ha vissuta?
«A un certo punto mi sono resa conto che l’altra persona davanti a me non era più quella che conoscevo. Giacomo è una persona allegra, positiva, ma il virus l’ha buttato giù. A un certo punto ci siamo detti: dobbiamo essere ottimisti per nostro figlio. Così quando lui era completamente a terra, io mi trasformavo in quella combattiva; mentre quando mancavano a me le forze, lui diventava quello grintoso. Anche in questo abbiamo fatto i turni. Finché a un certo punto abbiamo provato a scherzare su qualsiasi cosa. Quando ci sedevamo a tavola, tutti molto distanti, da un capo all’altro del tavolo, ci sembrava di pranzare come i sovrani di un tempo. Come tante famiglie anch’io ho rinunciato all’aiuto della colf, facendo tutto da sola anche quando stavo male. Lavatrici comprese. Un giorno ho scoperto che Giacomo, ammalato con la febbre alta, si era cambiato sette camicie in meno di 24 ore, una ogni volta che, per effetto della tachipirina, scendeva la temperatura e sudava. Con mio figlio abbiamo iniziato a prenderlo in giro per il suo non volere mai rinunciare alla camicia, anche se stava sul divano tutto il giorno. I nostri amici, che lo vedevano in videochiamata, l’hanno soprannominato “Poretti, the master of elegance”, io pregavo solo che smettesse di sudare».

Suo marito ha raccontato anche di essersi ricordato di quando faceva l’infermiere.
«Sì, si è messo nei panni dei colleghi e della situazione terribile che si sono ritrovati a vivere. L’infermiere è un lavoro che gli è rimasto dentro, l’ha messo anche nel testo dello spettacolo teatrale con cui aveva già debuttato prima del blocco».

Oggi come state?
«Non abbiamo più sintomi da diverse settimane, i nostri tamponi sono negativi. Pian piano sono anche uscita dalla porta di casa».

Che cosa ha provato la prima volta?
«È stato stranissimo, ho trovato un’esplosione di primavera in mezzo al deserto, alle saracinesche abbassate. Io sono una che appena può scappa da Milano perché ha bisogno di natura ma ora inizio a guardare anche tutto il verde che abbiamo intorno in città, ad apprezzarlo. I giardini condominiali adesso sono animati».

Cosa pensa dell’inizio della Fase 2?
«Sono fiduciosa. Per la prima volta sento un senso di appartenenza ancora più forte nei confronti della città. Abbiamo capito, o almeno lo spero, che non è solo nostra ma anche di tanti altri. Spero sia davvero l’ora della responsabilità. I pesi da portare sono ancora pesanti, ma dobbiamo dividerceli, aiutarci a vicenda».

Il futuro come lo immagina?
«Dipenderà molto da noi, non lo possiamo più delegare a qualcuno che decide al nostro posto. Tutti siamo importanti e tutti dobbiamo fare la nostra parte. Se lo capiamo, il futuro possiamo ricostruircelo».

VanityFair.it

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