Officina delle idee

Ferite di guerra

Rivedendo una puntata della vita di Maiorana, il celebre fisico misteriosamente scomparso, ho riascoltato una stupida canzoncina anni ’40 (serviva a ricreare l’atmosfera) il cui titolo è “Cavallino, corri e va”.

Mi sono sentito dolere una vecchia cicatrice che avevo dimenticato. Nel marzo/aprile del 42 ero al cinema Partenope in via Foria a vedere una commediola la cui colonna sonora era appunto quella canzone. Una improvvisa incursione fece interrompere la proiezione. Scappammo tutti mentre le prime bombe cadevano sulla zona. Abitavo allora a vico Cavaiole, dietro la fontana delle “Paparelle”. I napoletani conoscono il luogo. Entrando nel vicolo trovai la mia casa ridotta ad un cumulo di macerie. Raccolsi una scheggia della porta della cameretta mia e dei miei fratelli, per ricordo. L’ho portata infilata alla cintura per tutta la durata della guerra fin quando non avemmo di nuovo una casa a Napoli.

Quel giorno restammo senza niente: solo con i vestiti che indossavamo ed i pochi soldi della borsetta di mamma. Da allora ogni volta che sentivo quella canzone mi venivano le lacrime agli occhi. Non piangevo. Avevo solo gli occhi umidi ma un dolore profondo nel cuore, un pianto interno che mi accorava. Quando mi capitava stando vicino a mia madre, mi allontanavo per non farla preoccupare. Lei aveva capito però (‘o figlio muto ‘a mamma ‘o ‘ntenne) e perciò mi rivolgeva un lieve sorriso di simpatia, come per dire: «Passerà, l’importante è che siamo vivi».

Tornati a Napoli mio padre fece la richiesta per i danni di guerra. Pretesero la fattura di acquisto dei mobili. Potemmo esibirla perché mia madre non abbandonava mai le carte del suo matrimonio, l’avvenimento più importante della sua vita cosa che oggi magari fa un po’ sorridere, ma allora ragionavano così. Ci restituirono la somma. C’era un “ma”. I mobili erano stati acquistati nel 1930. Ci diedero esattamente la stessa somma senza nessuna rivalutazione. Con quei soldi comprammo sei sedie. Mio padre quando vedeva che le usavamo impropriamente diceva: «Guagliù, stateve attiente pecchè p’accattà ‘sti segge c’è vuluto ‘n guerra»

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