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La pittura a Napoli alle soglie del Seicento. Prima visita guidata, domenica 4 settembre

Chi volesse conoscere i massimi esempi della pittura napoletana sul far del Seicento dovrebbe, entrando nella grandiosa chiesa di S. Maria la Nova, alzare gli occhi ed ammirare lo splendido soffitto cassettonato, che da solo costituisce una meravigliosa pinacoteca di quasi cinquanta dipinti, nel quale furono impegnati i più importanti artisti napoletani del periodo, che avevano raggiunto la piena maturità ed avevano già dato prova esauriente della loro capacità nelle altre chiese napoletane, da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez. Questo straordinario soffitto costituisce una esaustiva antologia delle correnti pittoriche che dominavano in città ad inizio secolo, dalla maniera dolce e pastosa del Curia alla cosiddetta riforma toscana importata dal Santafede, in tutte le possibili declinazioni.
Il secolo d’oro della pittura napoletana, che tanto riverbero avrà sull’intera civiltà artistica europea, nasce così sotto il segno di artisti che seguono la maniera più ritardataria e provinciale, con una stanca parlata comune, quasi del tutto priva di voci dominanti, quando, come per incanto, nel primo decennio con un’apparizione improvvisa compare e scompare due volte dalla scena Michelangelo Merisi da Caravaggio. La sua presenza farà da catalizzatore delle energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la “Napoli sacra”, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargano e si innovano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
Generalmente il  Seicento napoletano in pittura viene preso in considerazione a partire dal 1606, anno del primo soggiorno in città del Caravaggio e lo si fa terminare nel 1705 con la morte di Luca Giordano. Noi viceversa ci atterremo strettamente agli anni di inizio e fine secolo dal 1600 al 1699. Questo severo criterio cronologico ci induce a trattare, anche se brevemente, di tutti quegli artisti e non sono pochi, che, figli del Cinquecento ed insensibili alla nuova cultura caravaggesca, pur continuarono a lavorare, alcuni intensamente, fino alla metà del secolo.
La grande mostra, tenutasi a Napoli nel 1984 sulla civiltà del Seicento, trascurò completamente questa generazione di artisti e così fanno anche molti testi pur autorevoli di storia dell’arte; ma non si può certo lasciare senza attenzione l’opera di tanti artisti che, richiesti da una folta committenza pubblica e privata, a carattere devozionale, continuarono, tra il decorativo e l’illustrativo, la loro opera talune volte inscurendo unicamente la tavolozza per adeguarsi, anche se superficialmente, alla nuova moda.
Fra le correnti artistiche cinquecentesche che protrudono nel secolo successivo sono da annoverare la linea della pittura dolce che, ispirata dalla maniera di Zuccari e Barocci ha tra i suoi protagonisti Francesco Curia e Girolamo Imparato, scomparsi contemporaneamente alla venuta del Caravaggio ed il fiammingo napoletanizzato Dirk Hendricksz, il quale, poco concedendo in variazione al suo stile, lavora fino a circa il 1615. Con questi autori dobbiamo ricordare anche Giovan Antonio D’Amato, figlio di Giovan Angelo che proseguirà la bottega paterna fino al 1643.
Francesco Curia è il più abile tra i tardo manieristi napoletani, figlio d’arte è nella bottega del padre Michele dal 1588 ed il 1594. Entro il secolo realizza numerose ed importanti opere per evolvere poi, sotto la spinta degli esempi degli artisti fiamminghi presenti in città, sostenitori della maniera tenera, verso una forma elegante e mossa, che farà di lui il campione indiscusso di una pittura fresca e dal forte impatto emozionale, bizzarra e surreale, visionaria e fantastica. La sua pennellata morbida e densa, quasi lanosa dà un’impressione tattile sulla superficie pittorica.
A partire dal 1600 numerosi documenti di pagamento testimoniano della sua fama oramai consolidata. Nel 1601 esegue la Madonna del Rosario di Prepezzano oggi nel museo diocesano di Salerno, nel 1603 replica l’analogo soggetto per la parrocchiale di Orta di Atella  e da questi dipinti Giuseppe Marullo ed altri stanzioneschi preleveranno gli angioletti che svolazzano in alto nella composizione.
Il 1602 è la data della sua celebre Gloria del nome della Vergine incastonata nel cassettonato di Santa Maria la Nova, animata da uno sfrenato dinamismo con l’angelo che sembra volare al di fuori della composizione. Intorno al 1605 è collocabile il Battesimo di Cristo nella cappella Brancacci del Duomo, un dipinto nel quale le pose fisse dei protagonisti trasportano in una dimensione irreale e rappresentano l’ultimo guizzo di genio dello svagato pittore.
Girolamo Imparato inizia la sua carriera nella bottega di Silvestro Buono come mero pittore devozionale intorno al 1570, per collaborare poi in seguito con Giovannangelo D’amato, con Dirk Hendricksz nel cassettonato di Donnaromita e con alcuni artisti del cantiere della certosa di San Martino. Egli nel suo lungo percorso fino alle soglie del Seicento mostra una chiara evoluzione da una cultura di marca fiamminga piena di cangiatismi ad una pittura tenera di matrice baroccesca.
Giunto alle soglie del secolo d’oro contribuirà con un ultimo sprazzo estroso e visionario all’ultima stagione della pittura tardo manierista prima della rivoluzione caravaggesca, dando luogo a composizioni luminescenti e turbinose spesso arricchite da panneggi  che sembrano una seta rigida quanto leggera.
Tra le sue opere seicentesche rammentiamo il Sant’Ignazio in estasi (1601) e la Natività (1602-03) realizzati per il Gesù Nuovo, l’Annunciazione e l’Assunta, firmata e datata 1603, per il cassettonato di Santa Maria la Nova, oltre a tre quadri eseguiti per gli altarini laterali, la Circoncisione, documentata al 1606, del museo del Banco di Napoli ed infine, nel 1607, il Martirio di San Pietro da Verona, consegnato poco prima della morte, per l’altar maggiore della chiesa di San Pietro Martire.
Dirk Hendricksz, conosciuto anche come Teodoro D’Errico, è documentato a Napoli dal 1574 al 1608 ed è il principale esponente della colonia fiamminga in città, ideatore di una pittura tenera dal ricco impasto cromatico, che raggiungerà il culmine del successo nei due celebri cassettonati di San Gregorio Armeno prima e di Donnaromita poi. Sono vaste composizioni che, alla ricercatezza del colore, associano uno stile pittorico di pretta marca barroccesca.
I pittori nordici erano specializzati in pitture di paesi e nelle vedute, in quadri di genere come le stagioni, le stregonerie o le cacce ed erano abilissimi a dipingere sul rame con colori fini, vivaci ed allegri.
Al di fuori dei loro settori preferiti erano spesso destinatari di importanti committenze da parte di chiese ed ordini religiosi.
Al virare del secolo la sua maniera si avvale di una materia sempre più fluida ed impastata ed il suo stile da leggero, fantasioso e sfarfaleggiante diviene più calibrato e più serio. La sua attività è scandita da poche opere certe, mentre si incrementa la collaborazione col figlio Giovan Luca.
Tre opere seicentesche sono certamente documentate e sono il Miracolo di Cristo di Arienzo, la Madonna del Carmine di Santa Maria la Nova e la Santa Caterina dell’Annunziata oggi nel museo civico a Castel Nuovo, alle quali aggiungere la Crocefissione in Santa Maria del Parto e la Visitazione già in San Marco ai Lanzieri. Sono dipinti segnati da uno stile espressivo e patetico non senza qualche piccola caduta formale. Nel maggio del 1610 il pittore, dopo la morte prematura del figlio, decide di ritornare in patria ad Amsterdam, dove concluderà stancamente una carriera che per oltre quaranta anni lo ha visto tra i principali protagonisti del tardo manierismo nell’Italia meridionale.
Giovanni Antonio D’Amato nasce come pittore devozionale ma per una parte del suo percorso artistico sarà attirato dal naturalismo dei primi caravaggeschi napoletani, a tal punto da confondersi a loro in alcune opere come nel Mosè fa scaturire l’acqua dalla rocca della collezione Pellegrini a Cosenza, attribuito in passato a Beltrano o a Vitale. I suoi quadri naturalisti sono però sempre intrisi da una garbata punta di devozione familiare e dal dolce impasto cromatico proprio delle sue origini baroccesche.
Ad inizio secolo sono collocabili la Vergine Lauretana della chiesa di Santa Maria del Popolo agli Incurabili e la Visione di San Romualdo sulla volta del coro dell’Eremo dei Camaldoli. In anni successivi realizza il caravaggesco Santi Nicola, Domenico e Gennaro, oggi nel museo civico. Celebri alcune sue opere conservate nella quadreria dei Gerolamini: la Deposizione e la Sacra Famiglia, un soggetto che replicherà in una tela già nella chiesa delle Crocelle ai Mannesi ed oggi al Divino Amore.
La sua attività proseguirà fino agli inoltrati anni Quaranta non solo a Napoli ed in costiera amalfitana, ma si irradierà anche verso la Calabria e la Puglia, fino a quando i tempi dell’ultima Maniera, anche se aggiornati al lume caravaggesco, non saranno esauriti definitivamente.
Il filone devozionale d’ispirazione toscana comprende autori importanti: Fabrizio Santafede, uno Stanzione ante litteram, campione incontrastato della nuova pittura, Giovanni Balducci, fautore di un pacato realismo domestico e Giovan Bernardo Azzolino, suocero del Ribera, il più seicentesco tra i tardo manieristi napoletani. Essi si limiteranno unicamente ad un viraggio di colore verso lo scuro nelle loro composizioni sacre dopo il 1608. A questi autori può essere affiancato Ippolito Borghese dal linguaggio intriso di pietismo e dallo stile aneddotico e devozionale.
Fabrizio Santafede attivo dal 1576 al 1623 importa in area meridionale la corrente toscana che cercava di coniugare la tradizione pittorica fiorentina a quella pittorica veneziana. L’artista si fa fautore di un nuovo modo di interpretare la storia sacra con un patetismo contenuto ma efficace. La luce nei suoi dipinti, a differenza di quella cavaraggesca, potente nel rilevare impietosamente ogni aspetto della realtà, si posa delicatamente su persone ed oggetti ed anche quando l’ombra è profonda permette una lettura completa della figura nel rispetto del disegno e della composizione.
Egli è stato paragonato a sommi pittori come Murillo o ad abili mestieranti come Santi di Tito, ma a nostro giudizio il paragone che meglio rende la lunga attività dell’artista è quello con Massimo Stanzione. Alla pari del collega seicentesco il Santafede volle cantare la poetica degli affetti, la serenità e la gioia della famiglia, come nel Bagno di Gesù Bambino, conservato nella quadreria dei Gerolamini, che più che un quadro sacro dà l’impressione di una tranquilla scena nell’intimità domestica, una sacra conversazione.
Il delicato problema del luminismo naturalista fu affrontato con un occhio attento ai quadri notturni del Bassano e della sua bottega, che furono molto richiesti per decenni anche nel meridione e si giovarono del successo del verbo caravaggesco. In un suo celebre dipinto come la Resurrezione, eseguito nel 1608 per il Monte di Pietà, il Santafede utilizza un effetto di lume notturno accentuato da lampeggiamenti, drammatico ed efficace, dando prova di un’originale interpretazione veneziana del caravaggismo.
Tutte le più importanti collezioni napoletane, da quella dei Filomarino agli Spinelli di Tarsia, si vantavano di possedere tele del Santafede, del quale le fonti ci tramandano anche una notevole attività di ritrattista di ispirazione fiamminga: analitica e descrittiva. Pochi esempi ci sono pervenuti e tra questi il principale è il Ritratto del viceré conte di Olivares e della moglie conservato a Madrid nella raccolta del duca d’Alba, mentre la sua abilità si può apprezzare anche nelle fisionomie dei committenti in alcune pale d’altare come in quella giovanile di Matera o nella tela per la chiesa dei Sette dolori.
Non possiamo giudicare le sue qualità di decoratore, che lo videro all’opera con Battistello per due anni nei perduti affreschi della Cappella del Tesoro.
Numerosi sono i suoi quadri per importanti committenti nel primo e secondo  decennio del secolo, mentre la sua bottega, assai prolifica, era in grado di soddisfare ordini che venivano non solo da Napoli e dal viceregno, ma dalla Spagna e dalle altre regioni italiane.
Ricordiamo l’Incoronazione della Vergine (1601 – 02) per il soffitto di Santa Maria la Nova, la Pietà (1601- 03) per il Monte di Pietà, la Pentecoste (1609 – 10) per lo Spirito Santo, la Trinità con la vergine e Santi (1618 – 19) della chiesa di Monteverginella, la Madonna coi santi Francesco e Domenico (1623 – 24) nella chiesetta di Ruvo e tanti altri

Replica autografa di un capolavoro del Santafede

La cortesia dell’ingegner Paolo Onofri, il quale ci ha concesso il privilegio di visitare la sua spettacolare pinacoteca privata ricca di ben 350 dipinti, ci ha permesso di identificare una replica autografa(fig. 1), siglata e di eguali dimensioni, di uno dei capolavori seicenteschi di Fabrizio Santafede: la Lavanda del Bambino(fig. 2) conservata nella pinacoteca dei Gerolamini.
Il Santafede è una delle figure di maggiore spessore culturale che lavora a Napoli tra la fine del Cinquecento ed i primi decenni del Seicento Egli si farà interprete di un nuovo modello di pittura devozionale, realistico ma pieno di decoro, che resterà egemone per molti anni, fino all’avvento di una lettura pietistica del naturalismo caravaggesco da parte di una nuova generazione di  artisti locali attivi tra il 1620 ed il 1630.
Fabrizio Santafede, attivo dal 1576 al 1623, importa in area meridionale la corrente toscana che cercava di coniugare la tradizione pittorica fiorentina a quella veneziana. L’artista si fa fautore di un nuovo modo di interpretare la storia sacra con un patetismo contenuto ma efficace. La luce nei suoi dipinti, a differenza di quella cavaraggesca, potente nel rilevare impietosamente ogni aspetto della realtà, si posa delicatamente su persone ed oggetti ed anche quando l’ombra è profonda permette una lettura completa della figura nel rispetto del disegno e della composizione.
Egli è stato paragonato a sommi pittori come Murillo o ad abili mestieranti come Santi di Tito, ma a nostro giudizio il paragone che meglio rende la lunga attività dell’artista è quello con Massimo Stanzione. Alla pari del collega seicentesco il Santafede volle cantare la poetica degli affetti, la serenità e la gioia della famiglia, come nella Lavanda del Bambino, che meglio si potrebbe chiamare Bagno di Gesù Bambino, conservato nella quadreria dei Gerolamini, che più che un quadro sacro dà l’impressione di una tranquilla scena nell’intimità domestica, una sacra conversazione.
Il delicato problema del luminismo naturalista fu affrontato con un occhio attento ai quadri notturni del Bassano e della sua bottega, che furono molto richiesti per decenni anche nel meridione e si giovarono del successo del verbo caravaggesco. In un suo celebre dipinto come la Resurrezione(fig. 3), eseguito nel 1608 per il Monte di Pietà, il Santafede utilizza un effetto di lume notturno accentuato da lampeggiamenti, drammatico ed efficace, dando prova di un’originale interpretazione veneziana del caravaggismo.
Tutte le più importanti collezioni napoletane, da quella dei Filomarino agli Spinelli di Tarsia, si vantavano di possedere tele del Santafede, del quale le fonti ci tramandano anche una notevole attività di ritrattista di ispirazione fiamminga: analitica e descrittiva. Pochi esempi ci sono pervenuti e tra questi il principale è il Ritratto del viceré conte di Olivares e della moglie conservato a Madrid nella raccolta del duca d’Alba, mentre la sua abilità si può apprezzare anche nelle fisionomie dei committenti in alcune pale d’altare come in quella giovanile di Matera o nella tela per la chiesa dei Sette dolori.
Non possiamo giudicare le sue qualità di decoratore, che, sul finir della carriera, lo videro all’opera con Battistello per due anni nei perduti affreschi della Cappella del Tesoro.
Numerosi sono i suoi quadri per importanti committenti nel primo e secondo  decennio del secolo, mentre la sua bottega, assai prolifica, era in grado di soddisfare ordini che venivano non solo da Napoli e dal viceregno, ma dalla Spagna e dalle altre regioni italiane.
La Lavanda del Bambino è assieme ai Figli di Zebedeo davanti a Cristo(fig. 4) tra le opere dell’artista più citata  e lodata dalle fonti e la sua datazione va posta verso gli inizi del secondo decennio, quando l’iscurimento delle ombre e qualche gioco luministico di superficie testimoniano di un certo interessamento per la lezione del Caravaggio, che va ad affiancarsi a quello ben più sedimentato per i fiorentini venetizzanti come il Passignano.
Il quadro va posto in stretta successione con la Sacra famiglia con S. Lucia (fig. 5) conservata nella pinacoteca del Pio Monte della Misericordia, della quale cogliamo l’occasione per pubblicare un’inedita replica autografa(fig. 6) di collezione privata napoletana e la Madonna  col Bambino e San Gaetano  Thiene della Galleria Harrach di Vienna, in una posizione parallela rispetto alla già citata tela con i Figli di Zebedeo.
Il De Dominici nel 1742 parla in tono entusiastico della Lavanda del Bambino: ”Vi è ancora nella medesima Sagrestia una Beata Vergine al naturale infino alle ginocchia, che fa atto di lavar Gesù Cristo in una conca di rame, nel mentre una donna scalda un pannicello e un fanciullo le porge l’acqua e questo quadro è migliore dell’altro( i Figli di Zebedeo)  per la tinta e la freschezza del colore, ma la Vergine ha lo stesso volto di un certo naturale, del quale solea egli servirsi di una congiunta… che veramente non ha in sé tutto quel nobile  e gentile, né quella idea divina che si deve alla Regina dei Cieli”.
Il dipinto è inoltre citato in molte antiche guide, in particolare dal Celano(1692), dal Sigismondo(1788 – 89), dal Catalani(1845), dal Chiarini(1856 – 60) e dal Galante(1872).
La tela della collezione Onofri(fig. 7) va collocata in quella produzione, a volte di dimensione più ridotta, che l’artista eseguiva per una committenza privata. Nel caso in esame il dipinto era collocato nella cappella di famiglia, dove si trovava da epoca immemorabile. Tutti questi quadri a carattere devozionale erano segnati da una dimensione domestica ed il sommesso realismo del pittore a volte era più accentuato che nella più impegnata produzione destinata agli altari delle chiese. Ed è proprio in questi lavori, spesso non affatto minori e contraddistinti da un pacato pietismo e da una quiete retorica degli affetti che il confronto Santafede – Santi di Tito, come ha sottolineato Leone de Castris massimo studioso dell’artista, si trasforma con più facilità e naturalezza in quello Santafede – Murillo, inducendo a volte in errori attributivi la critica meno avvertita.
Bibliografia
De Dominici B. – Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, II, pag. 233 – Napoli 1742
Causa R.  – Opere d’arte del Pio Monte della Misericordia, pag. 103 – Napoli 1970
Previtali G. – La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, pag. 156, num. 93 – Torino 1978
de Castris P. – Middione R. – La Quadreria dei Gerolamini, pag. 72 – 73 – Napoli 1986
de Castris P. – Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573 – 1606 l’ultima maniera, da pag. 261 a pag. 284, in particolare pag. 265 – 276 –  282, nota 57 – Napoli 1991
Middione R. – La Quadreria dei Gerolamini, pag. 35 – Napoli 1995

Scoperto un nuovo pittore cinquecentesco: Gian Lorenzo Firello

Sant’Egidio del Monte Albino è un ridente paesello del salernitano, noto per conservare uno dei più intriganti polittici del Cinquecento campano ed a me caro per aver dato i natali all’infermiere Michele Spirito, conosciuto all’ospedale di Cava de’ Tirreni, dove entrambi lavoravamo (e lui ci lavora ancora) e per essere stato il mio fedele braccio destro per 16 anni nell’espletamento della mia attività professionale privata.
Quante volte mi ha invitato a pranzo e dopo esserci rifocillati assieme ci recavamo nella chiesa abbaziale di S. Maria Maddalena in Armillis, dove rimanevo a lungo a contemplare lo splendido politico posto sull’altare maggiore, uno dei più belli espressi nel Cinquecento in Campania.
Alla base della composizione si legge chiaramente la data di esecuzione 1543, ma sull’autore regnava una grande incertezza. Si passava infatti dal nome di Marco Pino, avanzato nel lontano 1610 dal vescovo di Nocera nel corso di una visita pastorale, a quello di Andrea Sabatini ipotizzato dalla critica nel 1721, per pensare 50 anni dopo ad un’opera del cosentino Pietro Negroni. Più di recente era stato attribuito a più mani, ritenendo che il polittico, cominciato da Marco Cardisco, fosse stato completato da Negroni, con un intervento marginale di Severo Ierace.
Altre attribuzioni erano state avanzate da specialisti del Cinquecento come Previtali, che aveva pensato al Castellano nel 1972, il Kalby a Cardisco nel 1975 e Leone de Castris a Negroni nel 1996.
Le principali botteghe che agivano sul mercato intorno alla metà del secolo erano quella di Severo Ierace e Giovan Filippo Criscuolo, che si rifaceva alla lezione del Sabatini e quella del Negroni e di Marco Cardisco, ispirata ai lavori di Polidoro da Caravaggio e, combinazione, in alcuni scomparti del polittico sono evidenti i prelievi dalla pala della Pescheria.
Poi all’improvviso la scoperta di un documento reperito da Salvatore Silvestri, un diligente studioso locale, una categoria misconosciuta a cui tanto deve il progredire delle conoscenze, ha gettato un fascio di luce sul misterioso autore del polittico, identificato con Giovan Lorenzo Firello, un Carneade del quale scopriamo doti di grande eclettismo e di notevole versatilità.
Il documento rintracciato all’Archivio di Stato di Salerno, redatto in latino, anche se maccheronico, reca la data del 14 giugno 1540 e ci informa della commissione, per la parte lignea all’ebanista Francesco Montagnaro, che viene pagato 11 once in carlini d’argento, mentre per la pittura a Firello vengono riconosciute ben 10 once d’oro, oltre, ad abundantiam, due bottiglie di vino, forse per brindare.
Nel documento viene indicata con precisione l’iconografia, che contempla naturalmente anche la presenza di Sant’Egidio e viene specificato che il costosissimo blu oltremarino, da impiegare nel polittico, sarebbe stato fornito a parte.
La scoperta di questo nuovo artista, così qualificato da aver prodotto uno dei polittici di più elevata qualità del Cinquecento campano, apre un nuovo capitolo nella storia dell’arte meridionale ed invita gli studiosi a rintracciare qualche altro lavoro di questo abile pittore.

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