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Le nuove generazioni: i futuri poveri?

I giovani rappresentano una risorsa importantissima per lo sviluppo nazionale e locale. Eppure, in Italia, le condizioni peggiori dal punto di vista lavorativo e professionale sono vissute proprio dalle giovani generazioni. La disoccupazione arriva intorno al 40%, un record mai registrato prima dagli anni ’70 e 80 ed in più, a stupire particolarmente è il livello considerevole dei giovani, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, non occupati e non inseriti in un percorso di istruzione e formazione (la cosiddetta neet geneneration). E’ da sottolineare che l’incidenza dei neet in Italia è superiore alla media europea (21,9% contro il 15,8% dell’Ue) e che, come informa l’Istat (2013), l’incidenza di coloro che non studiano e non lavorano sono maggiori rispetto ai disoccupati veri e propri. Per dirla meglio, mentre negli altri paesi Europei i disoccupati sono più del doppio rispetto ai giovani inattivi, in Italia si registra esattamente il contrario. Quindi l’Italia presenta una difficoltà di accesso al mercato del lavoro unito ad un forte scoraggiamento da parte delle nuove generazioni a trovare un’occupazione, molto spesso legato alle aspirazioni e alle personali attitudini, che non riescono a trovare un riscontro reale e positivo., Se si va a guardare, invece, il tasso di occupazione dei giovani nella classe d’età 15-34 anni, esso si aggira soltanto intorno al 40% su un totale di circa 61% se si considera la classe di età 15-64 anni (in Europa, specie in Germania e Francia questo dato si aggira intorno al 75%). Come informa l’Ocse, dunque, l’Italia si trova all’ultimo posto in faccenda “occupazione giovanile”.

Chiaramente la condizione giovanile investe quella che è la condizione generale del paese caratterizzata da un forte divario Nord-Sud (la maggior parte della forza lavoro disoccupata si concentra nel mezzogiorno) e da un modello familistico del lavoro che continua a garantire il capofamiglia. In un certo senso l’Italia si trova spaccata a metà, da un lato i lavoratori del pubblico impiego, con garanzie e tutele e dall’altro, un mercato del lavoro instabile e precario che assorbe principalmente la manodopera giovanile. Ma chi sono i lavoratori del pubblico impiego? Semplificando molto il concetto, si può dire che loro sono i genitori delle nuove generazioni che hanno preso il posto nella pubblica amministrazione intorno agli anni ‘70 e che oggi, tra una riforma e l’altra, ancora non riescono ad andare in pensione. E i giovani di oggi, quelli istruiti ma precari e inattivi, chi sono? Sono i figli di quella stessa classe media che oggi è occupata nella pubblica amministrazione e che sono destinati, per ovvie ragioni, ad un futuro altro. Questo ragionamento serve a dire due cose: innanzitutto il pubblico impiego ha funzionato per lungo tempo da ammortizzatore sociale, consentendo ai giovani di studiare, di formarsi e quindi di garantirsi una mobilità sociale (immaginando un futuro di scarto generazionale); dall’altro, quei stessi giovani, trovandosi in un modello sistemico completamente cambiato, sono quelli che hanno pagato maggiormente i costi della crisi e che quindi vedono infranto, di fatto, il percorso che si erano prefissati. A maggior ragione se si pensa che la precarietà ostacola il desiderio dell’autorealizzazione e costringe addirittura i giovani a non affrancarsi dalla famiglia di origine (7 milioni di giovani under 35 abitano con mamma e papà). La maggior parte della manodopera giovanile e, a dire il vero, principalmente quella femminile, è impiegata nei call center, costringendo i giovani (i futuri capofamiglia) ad essere esposti ad una perdurante instabilità occupazionale. Per non parlare poi di quei giovani, laureati principalmente nelle cosiddette Università “pubbliche e di massa” messi da parte in favore di coloro che si laureano, invece, nelle Università “private e per pochi” e di stampo quasi statunitense (Bocconi di Milano, Politecnico di Torino per esempio).

Insomma un destino beffardo che fa ragionevolmente pensare che le nuove generazioni, istruite, laureate e digitali, figli della media borghesia, saranno i futuri poveri.

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