Economia e Welfare

Lo stato dei diritti in carcere: a che punto siamo?

“Lo Stato è chiaramente responsabile perché quel ragazzo è morto quando era nelle mani dello Stato. Ma sono il capo del potere esecutivo e non commento le sentenze. La partita non è chiusa, i giudici valuteranno”. Con queste parole, pronunciate nella trasmissione televisiva Ballarò, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha commentato l’assoluzione degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009, in ospedale, dopo sei giorni di detenzione. Parole importanti, che affermano un principio elementare di diritto, la tutela della vita e della salute di una persona quando questa, a qualunque titolo, è nelle mani dello Stato. A queste parole, però, è seguito subito il caso di un detenuto napoletano, ricoverato in gravissime condizioni in ospedale, dopo il suo ingresso in carcere, (un caso la cui dinamica è tutta da approfondire), un carcere al centro di un’inchiesta per presunti episodi di maltrattamenti avvenuti in quella che era definita la “cella zero”. Al netto di un’attenzione mediatica che si interessa di carcere a fasi alterne, ma che segna, certamente, una nuova attenzione al tema e anche la presenza di giornalisti preparati e competenti nella materia, quale è la situazione nelle carceri del nostro Paese?

Cominciamo dai numeri, come sempre indispensabili, per comprendere le dinamiche in atto. Al 31 ottobre (ultimo dato ufficiale disponibile) su una capienza di 49.327 posti, erano presenti 54.207 detenuti (di cui 2.343 donne). Ben 17.578 (poco meno di un terzo) sono stranieri. Circa 34mila sono i condannati in via definitiva, gli altri ventimila circa sono in attesa di un giudizio. Si registra, dunque, una positiva inversione di tendenza, dopo che la crescita esponenziale di presente aveva portato i detenuti sotto soglia 70mila. Questa riduzione dei numeri si deve alle misure adottate negli ultimi due anni per favorire misure alternative alla detenzione e alla sentenza della Corte costituzionale che ha inciso sugli effetti della famigerata Fini- Giovanardi, la legge che ha riempito le nostre carceri di tossicodipendenti. Sia chiaro, questa riduzione non è affatto sufficiente a ripristinare negli istituti di pena le condizioni di vivibilità richieste dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma almeno segna un’importante inversione di tendenza lunga vent’anni. Dal 2000 ad oggi, nelle carceri italiane si contano 2.358 morti, dei quali 839 suicidi e migliaia di episodi di autolesionismo e di scioperi della fame. Nell’ultimo anno contiamo 38 suicidi e 120 morti, un dato che se, da un lato, conferma un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti, dall’altro, segnala che la situazione rimane comunque grave.

Grave perché progressivamente si riducono le risorse investite negli interventi sociali e nelle figure professionali “civili” (educatori, psicologi, operatori sociali, mediatori culturali) che operano in carcere e perché si prospetta uno scenario di riforma che sembra segnare un passo indietro nella gestione del sistema penitenziario. Corre voce (ma si tratta di molto di più, di semplici rumors) che sia all’esame dei vertici del Ministero della Giustizia una proposta di riforma frutto del lavoro di tre pubblici ministeri, Nicola Gratteri, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Un progetto che affida – a quanto si apprende informalmente – alla polizia penitenziaria la direzione delle carceri e che scioglie il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Una svolta che, se confermata, appare configurare un modello detentivo “poliziesco”, di fatto, rompendo il già fragile equilibrio tra le funzioni di sicurezza e controllo e quelle di tutela dei diritti e di presa in carico. Una scelta che va in direzione contraria agli indirizzi e raccomandazioni degli organismi sovranazionali di tutela dei diritti. A ciò va aggiunto che, sebbene l’Italia abbia ratificato 26 anni fa la convenzione ONU che lo chiedeva, non è stato mai approvato nel nostro ordinamento l’introduzione del reato di tortura. Può apparire incredibile ma, come recita lo slogan delle associazioni che, come Antigone, si battono per la sua introduzione, in Italia “la tortura non è reato”. Sarebbe opportuno che chi ha responsabilità di governo non si limiti a parole belle e significative, ma faccia tutto quanto in suo potere per ridurre la condizione degradante di violenza e disagi nella quale sono costrette le persone detenute e, per riflesso, tutti gli operatori penitenziari. Che le esigenze di una reale riforma che estenda garanzie, tutele e diritti sono più che mai vive e passano attraverso l’estensione di misure alternative al carcere, l’abrogazione delle norme che etichettano gli immigrati come criminali, l’istituzione del Garante nazionale delle persone detenute, l’introduzione del reato di tortura. Misure di minima civiltà democratica che non dovrebbero arrestarsi di fronte alle prime rimostranze di alcuni sindacati di polizia corporativi e conservatori.

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