Tullio De Mauro, linguista d’eccezionale talento, scomparso a gennaio, è autore di “Parole per ferire”, che egli ama definire un “campionario di insulti” preparato per la «Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio» presieduta da Laura Boldrini e dedicata alla deputata inglese Jo Cox, contraria alla Brexit e assassinata prima del referendum britannico da un neonazista. Si tratta di una guida ragionata, dentro una relazione che sarà presentata il 20 luglio alla Camera e anticipata in parte mesi fa da «Internazionale», lungo l’itinerario dell’odio. Un itinerario che guarda allo sguardo umano dell’oggi. Parole come: imbecille, idiota o cretino, sono pugni in faccia sono degli insulti e «può accadere- spiega Tullio De Mauro- che qualsiasi parola e frase del tutto neutra in sé in circostanze molto particolari possa essere adoperata per ferire», le parole del resto sono delle lame sottili che possono ferire, a volte, anche uccidere dentro chi le subisce. Infatti, alla voce parole d’odio, non ci sono solo i «termini odiosi che provocano dolore perché sono dispregiativi per natura, quelli peggiori che si possano usare, soprattutto se si appartiene a un gruppo che esercita il potere su un altro perché costituisce una minoranza o perché ha alle spalle una lunga storia di discriminazione» come spiega Aaron Peckham, l’autore dell’Urban Dictionary dedicato ai neologismi e allo slang in lingua inglese. De Mauro, sostiene che non esistono soltanto «gli insulti volgari, le male parole, in genere legate a materie escrementizie e attività sessuali tabuate o le designazioni insultanti di categorie deboli o tali ritenute». Esiste anche «una vasta categoria di parole che non sono in sé volgari insulti né sono parole riconducibili a stereotipi etnici e sociali. Si stenterebbe a rintracciare volgarità o stereotipi discriminatori in parole come bietolone, bonzo, lucciola, parrucchiere che tuttavia in italiano sono usate anche come insulti efficaci». Le parole non sono” simboli di un’algebra astratta”, spiegò tre anni fa De Mauro «Non ci servono solo a indicare cose e azioni, ma anche segnalano, magari senza che ce ne rendiamo conto, chi siamo noi che le adoperiamo e come ci collochiamo verso ciò di cui parliamo. Questo vale sempre, vale tanto più quando la parola, scritta o trasmessa, è destinata a un vasto pubblico»
La nostra lingua, una lingua coltissima, è forbita di migliaia di vocaboli, parole che risiedono in pancia e che fuoriescono dalla bocca, parole che formano la comunicazione verbale e che investono la vita. Ci sono tante parole tra cui scegliere, quelle d’odio, di rancore, di cattiveria, di invidia, ma spesso non si riescono a trovare quelle d’amore, o se le si trovano si fanno fatica a sentirle davvero perchè l’amore è un sentimento difficile, è molto più facile ferire, tagliare l’anima con le parole, squarciare il pensiero, pur di far del male. L’amore è di pochi, l’odio è dei molti.