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Quattro novembre cento anni dopo: un lutto. No alle celebrazioni patriottarde.

La retorica sulla Grande Guerra viene da lontano e continua come possiamo constatare in questi giorni.  E’ quella che dice che bisognava “fare gli italiani” e redimere Trento e Trieste, è quella dell’Altare della Patria, del Milite ignoto, de  “Il Piave mormorava”,  dei monumenti  alla Vittoria con l’elenco dei caduti  in ogni comune d’Italia, della trasfigurazione della terribile sofferenza nelle trincee in eroismo e martirio per la Patria,  è quella della morte come esito eroico e virile. Si può continuare. Questo racconto della storia fu scritto sotto l’onda di Vittorio Veneto, venne  poi fatto proprio  dal fascismo e da esso abbondantemente usato; è rimasto poi  nella tradizione patriottico-popolare, insegnato nelle scuole e ripetuto in tante celebrazioni. Esso è stato parte, largamente maggioritaria, del sentire comune per decenni, molto  per inerzia e un po’ perché   giustamente si voleva guardare soprattutto al futuro dimenticando il passato, dopo l’inizio della Repubblica.

Una nuova narrazione

Lentamente una nuova narrazione ha iniziato a farsi largo. Con la “La grande guerra “ di Mario Monicelli del 1959  e “Uomini contro” di Francesco Rosi (film entrambi ostacolati perché  “disfattisti”) e con la storiografia che ha iniziato a fare il suo mestiere  chi ha voluto sapere e capire ne ha avuto la possibilità. I fatti hanno una forza che si impone : il colpo di Stato del 24 maggio contro un paese e un Parlamento largamente non interventisti, i morti (680.000), i feriti (950.000) oltre agli invalidi (460.000), le vittime civili (500.000 per la prima volta così numerose) , le condanne a morte e le decimazioni per  circa mille cosidetti   “disertori” (che attendono ancora una piena formale riabilitazione), l’uso per la prima volta di nuove armi di distruzione indiscriminata con i gas, gli aerei, i sottomarini . Le conseguenze nel dopoguerra colpirono tutto il popolo: famiglie scomposte  (vedove, orfani), l’epidemia di “spagnola”, le malattie mentali (i cosidetti “scemi di guerra” nel linguaggio popolare), i mutilati, gli ex combattenti e via di questo passo. E poi la situazione generale che portò al fascismo, al nazismo e alla seconda guerra mondiale.

La coscienza cristiana dov’era?

Questa storia   interpella ancora e  interpellerà per sempre la nostra coscienza cristiana: come è stato possibile?  Quali forze oscure del male si sono unite alla perversa volontà degli uomini? Quali culture, quali interessi, quali nazionalismi hanno attivato il sistema della distruzione generale, della guerra santa , del “giudizio divino” contro i nemici?  C’era allora  un’Europa  tutta cristiana e in cui le divisioni del passato per confessioni diverse (cattolici, protestanti, ortodossi) non avevano più rilevanza,  diversamente dal passato. Da una parte si diceva “Gott mit uns” e dall’altra si parlava di “union sacrée”.  Le motivazioni di carattere religioso venivano molto  usate, Cadorna  ancora prima dell’inizio del conflitto istituì i cappellani militari agli ordini di un Ordinario  e contava molto su motivazioni di tipo religioso per mobilitare le truppe.  Nacque  così un sistema  che intrecciava le motivazioni patriottiche  con quelle di fede. Combattere per la Patria e pregare il “proprio”  Dio era un unicum. Poi la fede dava conforto alle sofferenze che venivano motivate  alla luce di valori eterni. I cappellani organizzavano “conferenze patriottiche” con i soldati.  Il colpo di Stato di maggio fu dimenticato.  Ci furono molti cappellani molto zelanti nell’impegno patriottico (oltre che nell’assistenza ai feriti)  e la teorizzazione della guerra santa non mancò; in questo senso padre Agostino  Gemelli e padre Giovanni  Semeria  furono i personaggi più noti. L’ultimo numero di Civiltà Cattolica (n.4039) racconta del progressivo contributo cattolico alla guerra con un compiacimento che mi pare disdicevole. Così come ci è parso gravemente scorretto nominare papa Giovanni patrono dell’Esercito per avere egli fatto il cappellano militare. Il circolo perverso del “Dio italiano” e del “Dio austriaco”, da una parte all’altra delle trincee, si venne dunque consolidando ed ha in sé qualcosa di diabolico. Per quanto riguarda il nostro paese fu fatto deplorevole il sentirsi inseriti a pieno titolo  di una parte  della popolazione  nello stato sabaudo-risorgimentale (che il Vaticano disconosceva ancora dal 1870) soprattutto  in occasione della guerra.  Il progressivo inserimento avvenne anche coll’ingresso nel 1916 nel governo Boselli di Filippo Meda come ministro delle Finanze, molto noto esponente del mondo cattolico. Perché questa partecipazione dei cattolici alla vita  dello Stato  unitario non avvenne dall’inizio a causa  della testarda e perdente decisione di Pio IX di difendere a tutti costi un potere temporale superato dagli eventi della storia oltre che in evidente contraddizione  col Vangelo? 

La solitudine di Benedetto XV

Benedetto XV è ricordato come il papa della Nota del primo agosto 1917  in cui per scongiurare il proseguimento dell’  “inutile strage” proponeva a tutti sei punti equidistanti e di buon senso, per terminare la guerra e tali da fare  ritornare l’Europa  sostanzialmente alla situazione precedente.  Dato che si stanno santificando tutti i papi perché ci si dimentica di lui? Il papa fu snobbato praticamente da tutti gli stati in guerra a partire, in modo insofferente, dal “cattolico” Cadorna. Anche molti vescovi  coinvolti nella logica della guerra , “nascosero” il testo del papa. Benedetto XV si trovò solo. Le controtendenze furono modeste.  Nel nostro paese è ormai ben documentato che, ad una progressivo coinvolgimento dei cattolici  alla logica della partecipazione nazionale alla guerra , si accompagnò una resistenza che percorse una parte considerevole delle parrocchie e degli episcopati che subirono intimidazioni e processi e che era parte di quel No popolare alla guerra  che continuò ininterrotto dall’inizio alla fine  a partire dalle trincee ( si legga per tutti il libro di Ercole Ongaro “NO alla guerra”, EMIL, Bologna 2015). 

Il messaggio di don Milani sulla nostra storia

La demistificazione della propaganda patriottarda  di tutta la storia d’Italia  ebbero  il primo forte protagonista in Don Lorenzo Milani con i suoi due testi “Lettera ai cappellani militari”  del febbraio 1965 e “Lettera ai giudici” del successivo ottobre . Le reazioni che esse suscitarono in tribunale e in una parte della pubblica opinione dimostrano quanto, a quel tempo, fosse ancora arretrata la revisione storiografica  del nostro passato.  Dopo questi  cento anni, chi sente la responsabilità di dire a che punto siamo dal punto di vista del credente nell’Evangelo che partecipa a questa nostra Chiesa nella linea dell’ispirazione conciliare non può che rifarsi  alle parole di don Milani. C’è poco altro da aggiungere. Già allora forme di dissenso alla guerra indicavano il percorso dell’obiezione di coscienza e della nonviolenza,  che si estende al rifiuto  della guerra giusta. E’ un messaggio che ha ora una nuova autorità per le parole di papa Francesco  e che viene continuamente contraddetto  con la pratica della guerra mondiale a pezzi, con la corsa al riarmo anche nucleare, con il commercio delle armi,  con il rifiuto di cercare di ridurre e di eliminare le cause della povertà, delle migrazioni, dei terrorismi che delle guerre sono la causa principale.

Silenzi colpevoli nella nostra Chiesa

All’interno della nostra Chiesa ci aspettiamo che non ci siano silenzi per questa ricorrenza dei cento anni  o le solite parole di circostanza, ripetute di anno in anno. Si dica invece la verità  davanti ai monumenti e nei sacrari dei caduti: i nostri soldati morti sono state delle povere vittime, non erano eroi. Si pensi a qualche iniziativa, anche modesta ma di una qualche efficacia, per esempio quella di proporre il cambiamento del nome di vie e di piazze (“24 maggio”, “Cadorna” ecc…), si pretenda che la storia  sia insegnata  finalmente in modo corretto e completo nelle scuole e nelle strutture di base del mondo cattolico  si dicano le cose come sono andate. Cerchiamo di impedire che siano i militari ad andare nelle scuole a parlare della Grande Guerra (questo vogliono fare i militari come ha detto ieri   in un’intervista sul “Corriere” il capo di Stato maggiore dell’Esercito Salvatore Farina ricordando che la guerra “fu un sacrificio necessario per completare l’unità italiana”).  Il vescovo di Bolzano Ivo Muser ha detto invece e  bene per questo quattro novembre  : “Non si chiamano vittorie quelle che si raggiungono attraverso guerra, nazionalismo, disprezzo di altri popoli, lingue, culture. Alla fine di una guerra ci sono sempre e solo sconfitti”. Il silenzio può essere peccato come può esserlo il trascurare sempre la predicazione sulle grandi questioni della pace, della guerra, come ci pare essere purtroppo la norma nei nostri episcopi e nelle nostre parrocchie. La nostra partecipazione al movimento pacifista e nonviolento e la nostra lettura dell’Evangelo ci fa essere conflittuali  con quanti nella Chiesa dimenticano su quale versante della storia ci troviamo e con quanti si permettono di usare questa ricorrenza per la solita retorica e. magari, il crocifisso per una volgare propaganda di bottega.               

  Vittorio Bellavite , coordinatore di Noi Siamo Chiesa

 

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