Qui ed ora

VIOLENZA A NAPOLI: CITTA’ DEGLI “ANNUNCI”

IL RUOLO DELLA CULTURA COME ANTIDOTO ALLA VIOLENZA

 

L’anno trascorso è stato un anno orribile dal punto di vista dei morti ammazzati a Napoli per mano della camorra ed in particolare dei morti ammazzati che con la camorra e  le sue logiche non avevano nulla da spartire. Anzi, il 2015 è stato un anno in perfetta continuità con l’anno precedente, che terminò con l’assassinio di Giorgi Goradze, un ragazzo di ventisei anni, cittadino georgiano, ucciso da un proiettile vagante mentre era seduto comodamente sul suo divano a giocare alla playstation. C’è qualcuno a Napoli che lo ricordi? Qualcuno ha scritto dell’esito delle indagini sul suo assassinio? Che io sappia, no!

E di Mariano Bottari, l’anziano pensionato ucciso il 28 luglio del 2014 alle undici del mattino in una via affollata del comune di Portici, qualcuno ci sa dire in quale carcere sono rinchiusi i suoi assassini? Poi è toccato al cittadino ucraino Anatolij Korol di trentacinque anni, ucciso davanti alla figlioletta il 29 agosto 2015 a Castello di Cisterna nel tentativo di sventare una rapina in un supermercato. Doveva proprio morire così? A luglio del 2015 muore ammazzato Luigi Galletta e a settembre stessa sorte tocca a Genny Cesarano, entrambi, seppur contigui a certi ambienti (secondo alcune stime, nel centro storico di Napoli, almeno ventimila persone vivrebbero di un’economia criminale, senza essere dei veri e propri affiliati), estranei ai conflitti in corso. E che dire del grave ferimento di Nicola Barbato, il poliziotto dell’ufficio antiracket (quello vero e non quello di facciata e parolaio), avvenuto davanti ad un esercizio commerciale il cui proprietario era stato sottoposto al pagamento di una tangente. Non se ne parla più. Quello di Nicola era un lavoro e quasi certamente – come tutti noi che abbiamo scelto quel lavoro – l’aveva messo nel conto, ma dimenticarsi di lui è ingiusto. Il 14 novembre in un agguato viene ucciso un boss della sanità, ma nel bel mezzo della pioggia di proiettili si trova un ragazzo, Giovanni Catena, che, mentre deposita nel cassonetto della spazzatura un sacchetto di rifiuti, vine gravemente colpito all’addome. Se l’è cavata, ma poteva morire.

Ora, le recentissime cronache criminali di una città troppo violenta ci consegnano l’ennesimo morto ammazzato,  Maikol Giuseppe Russo, di 27 anni, ucciso nella centralissima piazza Calenda la sera del 31 dicembre scorso. Sembrerebbe che anche lui sia stato ucciso per errore.

Il mio elenco è certamente incompleto, ma dà l’idea che a Napoli a morire ammazzati – per motivi legati al traffico di droga, alle spartizioni dei proventi derivanti dalle pratiche estorsive, al mancato rispetto dei delicati equilibri interni ai clan che compongono l’affresco di una camorra sempre più parcellizzata e divisa in bande – non ci voglia proprio niente. Basta trovarsi in un certo posto, dove i criminali hanno deciso di sparare e la tua sorte è segnata, senza scampo e senza via d’uscita. Senza contare i poliziotti, i giornalisti ed un certo numero di persone che per il loro impegno professionale sono state desigante a morire ammazzate e quelle uccise dalle tante violenze (donne uccise dai compagni violenti, coetanei che si uccidono tra di loro), nel corso degli anni è toccata una sorte uguale a tante persone, troppe. Una volta la vittima innocente si chiama Silvia Ruotolo, un’altra Annalisa Durante, un’altra volta Dario Scherillo (chi sono stati i suoi assassini? A distanza di undici anni ancora non lo sappiamo!) ed ancora Gigi Sequino e Paolo Castaldi, Fabio De Pandi, Lino Romano, Vincenzo Liguori, fino ad arrivare a contare un numero di circa trecento persone. La prossima chi sarà? Porterà un nome che conosciamo? Sarà un nostro amico, un nostro conoscente o saremo noi stessi che ci troveremo a passare per caso in un luogo dove la camorra all’improvviso spara e uccide?

Sono anni che la città di Napoli è stata abbandonata o, nella migliore delle ipotesi, affidata agli annunci. E tanto per restare in tema di annunci, voglio qui segnalare che il Ministro dell’Interno, già all’indomani dell’assassinio di Genny Cesarano nel quartiere Sanità, annunciò l’invio in città di cinquanta poliziotti di rinforzo. Non sono arrivati, ma se fossero arrivati, cosa avrebbero potuto modificare cinquanta poliziotti? Chi come me ha fatto il poliziotto sa benissimo che cinquanta uomini, tra divisione in turni e riposo settimanale, si traducono in due autopattuglie per turno. Non sarebbero serviti, dunque, ma non sono arrivate neanche quelle due pattuglie in più. Poi, venti giorni dopo, in seguito al ferimento del poliziotto Nicola Barbato, lo stesso Ministro lanciò un altro annuncio, questa volta più roboante, dell’invio di duecento uomini. Non sono arrivati neanche quelli, se le cronache di questi giorni riportano le dichiarazioni di autorevoli rappresentanti dei sindacati di polizia, in base alle quali in Questura sino ad oggi sarebbero arrivati solo otto poliziotti di rinforzo.

In questi anni si è fatto un gran parlare – ma se ne è solo parlato – della cultura come efficace antidoto alla diffusione della cultura criminale. Spesso si sono invocati interventi che incidano sull’individuo sin dalla nascita. Dell’efficacia di questi strumenti culturali e sociali resto convinto anche io, ma si tratta di interventi che  quand’anche arrivassero – e non arrivano – produrrebbero i loro effetti tra vent’anni. E nel frattempo che facciamo? Continuiamo a vedere morire i nostri ragazzi, criminali o vittime innocenti che siano?  No, io non ci sto, come ha di recente detto Sandro Ruotolo in un suo fondo sul Corriere del Mezzogiorno, a continuare a contare i morti ammazzati. È un esercizio che non mi appassiona e pretendo, come dovremmo pretendere tutti, un intervento serio dello Stato, che ritorni ad esserci dove per mezzo secolo non c’è stato, che ritorni a far sentire la sua voce, che non sia quella degli annunci e dei convegni. Uno Stato che faccia vedere la sua faccia anche determinata, perché a ferocia occorre contrapporre fermezza. L’esercito per le strade di Napoli? L’abbiamo già visto e la situazione non è cambiata. Non è cambiata perché per ogni cinque soldati ci vogliono tre poliziotti, anche questo è risaputo. Se i militari  possono sgravare i poliziotti dai compiti di controllo fisso dei luoghi sensibili e recuperare risorse da impiegare nel lavoro di controllo del territorio, allora ben vengano. Ma quei poliziotti devono essere dotati di risorse, di strumenti tecnologici adeguati al contrasto di una criminalità che si fa sempre più feroce. Una città come Napoli dovrebbe essere dotata di un efficiente circuito di videosorveglianza, che, nonostante i grandi annunci, non risulta mai essere funzionante, laddove sarebbe necessario. Undici anni fa qualcuno pensò ad una operazione che si chiamava Alto impatto. Non modificò le cose e, mentre era nel clou delle sue operazioni, si vide uccidere Annalisa Durante a Forcella e Claudio Taglialatela a Corso Umberto, mentre nella centralissima Piazza dei Martiri i delinquenti sfondarono la vetrina di un negozio di una importante griffe di abbigliamento, saccheggiandolo.

Ecco, lo Stato deve tornare a fare lo Stato, ma deve anche essere attento a non ripetere gli errori del passato e chi governa la città la deve smettere di fare demagogia a buon mercato, mettendo la pacca sulle spalle dei familiari della vittima innocente di turno e negando l’esistenza di un fenomeno che indisturbato imperversa da cinquant’anni nei vicoli di una delle città più importanti del Sud Europa.

C’è un’emergenza, la camorra che spara e uccide. Per questo è urgente disarmare Napoli. Chi siede nei posti di comando sa come si fa. Lo facesse e presto! Dopo, ma sarebbe meglio contemporaneamente, pensiamo a dare un’alternativa ai tanti giovani ed alla dimensione culturale e Napoli tornerà ad essere la città che vogliamo.

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