Economia e Welfare

Crisi economica e capitalismo morale-culturale

L’analisi della crisi (queste note riprendono considerazioni proposte ampiamente nel volume G. MIGLIACCIO, Squilibri e crisi nelle determinazioni quantitative d’azienda. Il contributo della dottrina italiana, Angeli, Milano, 2012) presuppone un excursus sull’evoluzione del capitalismo, distinguendo il capitalismo rurale, mercantile, industriale, manageriale e finanziario (La classificazione proposta, basata sul parametro temporale, non è l’unica. In W. J. BAUMOL, R. E. LITAN, C. J.SCHRAMM, Capitalismo buono. Capitalismo cattivo.

L’imprenditorialità e i suoi nemici, Egea, Milano, 2009, pag. 77 e segg. si distingue il capitalismo in: diretto dallo Stato, oligarchico, delle grandi imprese e imprenditoriale). Il primo ha caratterizzato i secoli nei quali la produzione agricola era l’unico sostentamento dei popoli, avvalendosi di pochi capitali e di molta manodopera. Successivamente, l’Europa registrò il capitalismo mercantile, dei commercianti che facilitarono l’accumulazione del risparmio poi investito nelle manifatture. Quindi, il capitalismo industriale, all’inizio dell’800, che divenne prevalente solo diffondendo l’elettricità. Nel primo ‘900 le due guerre mondiali furono causa di altalenanti vicende economiche. Dopo la ricostruzione, nel neo capitalismo manageriale, si affermarono le dirigenze apicali che sostennero produzione e consumi, favorendo un apprezzabile progresso socio-economico e riducendo le disuguaglianze tra le classi sociali.

Negli ultimi decenni, a causa del calo dei profitti, la proprietà ha richiesto ai manager di incrementare dividendi e quotazione dei titoli. Il capitalismo manageriale è diventato capitalismo finanziario, con operazioni speculative tendenti a profitti elevati, in tempi rapidi. L’impresa “irresponsabile” ha abbandonato, quindi, i superiori principi etici (L. GALLINO, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2009).

La crisi recente: le cause

La drammatica crisi sembra abbia avuto origini composite, reali e finanziarie. Innanzitutto l’aumento dei prezzi di alcune materie prime, soprattutto dell’energia. Essa sembra, però, soprattutto effetto della “bolla speculativa” del mercato immobiliare statunitense. Le investment bank concessero mutui ipotecari “sub-prime” a contraenti con reddito inadeguato che, nel 2008, furono spesso insolventi, anche per il crollo dei prezzi degli immobili. I crediti dei mutui furono smembrati e poi assemblati con altri prodotti finanziari per guadagnare giudizi migliori dalle agenzie di rating, e dunque cartolarizzati con operazioni di securitization. Le carditule “tossiche”, apparentemente redditizie, vennero vendute ovunque “infettando” il sistema finanziario mondiale. Gli effetti furono devastanti: aumento dell’inflazione in alcune zone e soprattutto gravissima recessione. La risposta alla crisi di credito e fiducia fu differente nei diversi Stati, evidenziando spesso le loro debolezze strutturali (F. CAPRIGLIONE, G. SEMERARO, Crisi finanziaria e dei debiti sovrani. L’unione europea tra rischi ed  opportunità, Utet, Torino, 2012). L’Italia è ancora in crisi principalmente per il debito pubblico elevato, la modesta crescita economica e l’instabilità del sistema politico che non riesce ad avviare adeguate riforme strutturali.

Crisi del liberismo e del capitalismo?

La crisi ha riproposto l’atavico dibattito tra detrattori e fautori del liberismo e del capitalismo. I primi sottolineano gli esiti catastrofici di un sistema che affida al mercato il raggiungimento degli equilibri. La sottovalutazione dello Stato e delle regole sarebbe la causa principale dei disagi. I secondi, all’opposto, sottolineano la relativa transitorietà della crisi e la debolezza strutturale dei molti Stati: la loro politica assistenzialista avrebbe accumulato debiti tali da indurre al default. Severi giudizi inoltre al modello organizzativo burocratico. Il dibattito esula dagli obiettivi di questo scritto che auspica un sistema economico misto e la cooperazione internazionale quale alternativa alla contrapposizione deleteria tra modelli ideologici antitetici.

Il capitalismo etico

Senza ipotizzare modifiche rivoluzionarie, sembra necessario un maggior controllo delle dinamiche aziendali, soprattutto creditizie. Considerando l’effetto “domino” globale, le nuove norme dovrebbero essere concordate tra le Nazioni e le istituzioni internazionali. La ratio: prevenire la mera speculazione e affermare una finanza al servizio dell’economia reale. La legge, tuttavia, difficilmente riuscirà, da sola, ad esaurire le esigenze di una società complessa senza un’adeguata e diffusa formazione etica che contribuisce decisamente allo sviluppo duraturo e alla creazione di valore. La società dovrebbe, però, accettare valori comuni ispirati a più nobili principi che marchino la strumentalità dell’economia rispetto al valore della vita. Solo così, al fallimentare capitalismo finanziario o tecnocratico, si potrebbe sostituire un capitalismo etico, reale speranza per il futuro.

Glocalizzazione e capitalismo morale-culturale

Innanzitutto, una nota sulla globalizzazione, responsabile del contagio. Innegabili i benefici dell’internazionalizzazione. Tuttavia, sembra che il sistema si orienti verso la convivenza tra globalizzazione e tradizioni locali, generando la “glocalizzazione” (Glocalizzazione o glocalismo è neologismo coniato in Giappone, poi importato in inglese dal sociologo R. ROBERTSON nel saggio Globalization: Social Theory and Global Culture, Sage – London, Thousand Oaks – New Delhi, 1992, e quindi sviluppato da Z. BAUMAN soprattutto in Globalizzazione e glocalizzazione, Armando, Roma, 2005). Con essa beni e servizi sono progettati per un mercato globale, ma adattati alla domanda locale. Il sistema glocale sembra più incline a recepire la necessaria istanza etica. Il reiterato richiamo etico potrebbe però generare legittime perplessità: tale invocazione è talvolta indotta da mera convenienza! Invocano atteggiamenti etici, poi, spesso coloro che, per convinzioni politiche, diffidano del profitto ritenendolo necessariamente intriso di logiche sfruttatrici. Da ribadire, nel contempo, l’oggettiva difficoltà di statuire principi etici universalmente accettati nelle composite società attuali multiculturali. Bisognerebbe riscoprire una morale comune e valori di origine religiosa più facilmente identificabili. Anche questo tentativo, tuttavia, sconta la contemporanea presenza di fedi differenti che però dovrebbero essere accumunate da riferimenti “ultimi” simili. La valenza dei principi morali, più persuasivi di quelli etici difficilmente statuibili, dovrebbe anche ispirare l’avvento determinante delle conoscenze quali fattori di produzione capitalizzabili. Innegabile, oggi, il valore propulsivo della conoscenza che innesta circoli virtuosi tendenti a migliorare prodotti e processi economici e sociali. Anche la conoscenza, tuttavia, dovrebbe essere subordinata a prioritari principi morali. Una fiducia esclusiva nel sapere umano e nella sua accumulazione può, infatti, indurre a errori già sperimentati in altre epoche nelle quali la “ragione” sembrava potesse essere risolutiva di ogni questione esistenziale, con gli esiti negativi ben noti.

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