CARCERE ED AFFETTIVITA’ NON SONO INCONCILIABILI. SI DIMINUIREBBERO FORME DI AUTOLESIONISMO E TENTATIVI DI SUCIDIO IN CARCERE. IN TANTI PAESI EUROPEI QUESTO DIRITTO E’ RICONOSCIUTO.

Le parole ‘’carcere’’ e “affettività’’ mostrano ad una prima analisi una apparente inconciliabilità. Alessandro Margara, grande magistrato di sorveglianza aveva scritto in proposito: « Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre alla perdita della libertà » . In fondo l’anagramma di carcere è “cercare”. Cercare per ritrovarsi. La detenzione non è solo contenimento, ma anche e soprattutto Accudimento.

Il diritto all’affettività in carcere è riconosciuto in diversi Paesi a cominciare per esempio da Spagna, Svizzera, Finlandia, Svezia, Norvegia, Austria e altri.

L’istituzione carceraria, difatti, priva i suoi ospiti delle relazioni confidenziali, della libera espressione dei sentimenti. A tale problema bisogna considerare l’attuale situazione delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata da antiche criticità come sovraffollamento, carenze dell’edilizia carceraria, assenza di personale penitenziario, gesti quotidiani di autolesionismo, tentativi di sucidio e tanti sucidi. Tuttavia, la scienza criminologica contemporanea ha dimostrato come frequenti e intimi incontri con le persone con le quali vi è stabilito un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel complesso percorso di recupero del diversamente libero.

A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative atte a garantire l’esercizio – in ambito carcerario – del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei. In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”. Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un “diritto all’affettività” avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria. Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi ad una relazione genitoriale o tra parenti il linea diretta o, ancora, ad una relazione amicale) e sessualità senza affettività, quale estrinsecazione della personalità e/o di un’autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico).

Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi, che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte. Nel carcere, in questo luogo “senza tempo”, vanno declinate l’affettività e la sessualità. Comprendere, qualificare e gestire, queste due dimensioni è pregnante quanto delicato: la nostra Carta costituente, a chiare lettere, disegna un carcere la cui cifra tenda alla rieducazione e le cui pene non consistano in trattamenti disumani; la verità ordinamentale ha quale focus irrinunciabile il rapporto con la famiglia come elemento del trattamento e dimensione da valorizzare (ex plurimis artt. 15 e 28 O.p.), pur conciliandolo con le esigenze di ordine e di sicurezza peculiari di un ambito detentivo. Se la dimensione affettiva è normativamente tutelata dalla normativa penitenziaria, benché, talvolta, solo formalmente (vedasi esempio di molti detenuti stranieri e taluni italiani che non riescono concretamente a poter fruire dei colloqui con i parenti e affini), pressoché inesistente, da un punto di prospettiva normativo, è la dimensione sessuale; rebus sic stantibus, unico “strumento”, non pensato con tale vocazione ma, talora, funzionalizzato in tal senso è la concessione dei permessi premio ex art. 30 ter O.p., che, comunque, è astrattamente fruibile da un numero residuale di ristretti. In tale humus detentivo, come ha sostenuto il medico penitenziario Francesco Ceraudo, per molti anni Presidente nazionale dell’Amapi (Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana), la sessualità in carcere è, pressoché sospesa, congelata.

Nei primi tempi della detenzione, la sessualità, appunto, è compressa da problematiche più contingenti; riemerge, in maniera prepotente, nei periodi successivi. Il sesso negato può diventare sesso esasperato o sesso “deviato”, come nei casi di “omosessualità indotta” in soggetti che, prima della detenzione, erano eterosessuali. Invece, significherebbe restituire ai detenuti un’opportunità, non solo sessuale, ma anche e soprattutto affettiva e di dignità: ciò servirebbe a garantire quei legami, quella solidarietà, a difendere quel bisogno che i detenuti hanno di abbracciare una moglie, una madre, un figlio. Ma poiché si tende sempre ad evitare o a marchiare in modo negativo le cose che danno fastidio o che comunque scandalizzano, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”.

Ciò che però ai detenuti manca è molto meno dal lato pratico: serve la possibilità di non recidere i legami, di non distruggere il proprio mondo relazionale ed affettivo, serve la speranza di non rimanere soli. Occorrerebbe farsi carico di un nuovo modello trattamentale fondato sul mantenimento delle relazioni affettive, la cui mancata coltivazione, è risaputo, rappresenta la principale causa del disagio individuale e grave motivo di rischio suicidario. Sono, dunque, enormi le difficoltà in cui ci si imbatte nel tentativo di portare la sessualità in carcere; probabilmente sarebbe più semplice e proficuo aumentare le possibilità di incontro tra i detenuti ed i loro familiari “al di fuori”, se veramente si vuole pensare al loro reinserimento ed alla loro riabilitazione. È fondamentale il ruolo della Magistratura di Sorveglianza, che è un giudice terzo e non un altro pm.

Apparirebbe quindi, auspicabile che al soggetto venisse concessa la possibilità di uscire più spesso dall’Istituto per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, culturali e sociali. In merito alle considerazioni siffatte, appaiono assai proficue ai fini del rafforzamento delle reti di legami parentali e amicali, le attività educative promosse dall’Ufficio Garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e gestite dalla cooperativa ‘’La città della gioia’’ e realizzate nelle sezioni femminili di Fuorni , Bellizzi irpino e il carcere femminile di Pozzuoli. Aiutare le donne a ritrovarsi come mamme , fidanzate, mogli.Dare valore e parola a coloro che vivono il carcere può innestare un meccanismo di riforma delle pratiche concrete della vita carceraria. Le donne sono una minoranza ed è proprio da questa minoranza che, per chi promuove questi progetti, potrebbe partire un cambiamento nei fatti esteso, nel tempo, all’intero mondo del carcere.

Riflettere sull’affettività in carcere, consiglio: i saggi di Francesco Angelone e Angela Caruso, Mena Minafra, José Antonio Ramos Vázquez.

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