Ciambriello:” Carcere, il lavoro che non c’è. Quando c’è ci sono effetti positivi sul reinserimento dei detenuti.”

Il varo della Riforma Cartabia, pare finalmente aprire la strada che assegna al giudice di merito la possibilità di “infliggere” anche misure alternative al carcere, condannando l’imputato a un percorso punitivo-rieducativo che potrà successivamente essere rimodulato dal magistrato di sorveglianza.

Attualmente, grazie alla “Legge Smuraglia”, circa 800 detenuti sono impegnati in attività professionalmente qualificanti. Molto pochi, considerando i circa 60mila reclusi nelle carceri d’Italia. Un numero risibile. In base alla legge, da qualche anno, le cooperative sociali e le imprese che desiderano organizzare attività lavorative dentro e fuori le mura delle carceri possono usufruire delle agevolazioni fiscali e contributive che questa legge concede a chi assume personale sottoposto a misura penale. Ma i problemi non mancano. Occorre infatti comprendere che quando non c’è nessun tessuto sociale intorno al carcere, le attività non partono. Il legame con le realtà industriali esterne è importantissimo e vitale, come pure quello con le organizzazioni di volontariato. Agire dunque, dentro e fuori le mura.
Per ora, in mancanza di dati certi sull’efficacia del lavoro in carcere e fuori, è solo possibile affermare che gli effetti derivanti dal lavoro in carcere, appaiono senza alcun dubbio positivi.
Tutti coloro che operano in carcere, infatti, testimoniano un effetto positivo sulla vita del detenuto impegnato in attività professionali qualificanti e risulta di immediata percezione, che il ricorso al lavoro e alle misure alternative riduce al minimo il fenomeno della recidiva.
Non sfuggirà che, questo richiama ad un’altra questione rappresentata dalla certificazione delle competenze professionali, in conseguenza del fatto che i detenuti vengano formati non solo per svolgere lavori tradizionali ma anche per affrontare le sfide tecnologiche che oggi attraversano i nuovi lavori.
In Campania, solo 1.883 detenuti su 6853, all’incirca il 20 per cento, sono impiegati in attività lavorative. E una quota ancora più esigua, pari a 26 persone, presta servizio in imprese o in cooperative esterne agli istituti di pena nonostante gli sgravi fiscali e contributivi previsti per l’assunzione di chi è recluso. Con buona pace della Costituzione, secondo la quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, e di quanti, dopo aver espiato la pena, intendano reinserirsi nel mercato del lavoro. Nell’ambito delle misure alternative alla detenzione, emerge un quadro a dir poco allarmante.
Emblematico il caso di Poggioreale dove si contano 346 lavoranti, tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, su una popolazione detenuta che supera le 2145 unità. Poco brillante anche la performance di Santa Maria Capua Vetere: 155 persone impiegate nel lavoro inframurario e dieci in quello extra-murario a fronte di 803 presenze. Tra gli istituti più virtuosi figurano quello di Sant’Angelo dei Lombardi, con i suoi 97 lavoranti (dato ricavato commutando il monteore in persone fisiche) su 139 presenze, e la Casa Circondariale di Lauro, dove risultano impiegate otto madri su 12.
Balza immediatamente all’occhio la differenza con la Lombardia che fa registrare 628 persone detenute che scontano la pena attraverso il lavoro esterno. Al di là del dato tecnico, risulta evidente che la vivacità del territorio risulta essere un dato imprescindibile per un inserimento professionale e lavorativo.

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