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Fabrizio Rondolino: vi spiego perché Minniti piace

di Fabrizio Rondolino – L’unità

È Marco Minniti, ad un mese dalla nascita del governo Gentiloni, il ministro più apprezzato dagli italiani. Secondo un’indagine condotta da Ipr Marketing per Repubblica il neoministro dell’Interno gode di un gradimento del 32%, un punto in più di Pier Carlo Padoan, che nel governo Renzi è sempre stato il ministro più apprezzato. Analogo risultato viene dalla ricerca dell’Istituto Piepoli per La Stampa: Minniti, con un indice di fiducia del 66%, si colloca al primo posto superando il ministro dell’Economia. Infine, sempre oggi, il Giornale gli dedica un ritratto a dir poco entusiasta: “Sgobbone e riservato, ha svoltato su immigrazione e sicurezza”, è “un caso più unico che raro” e, addirittura, è “il vero motivo per il quale verrebbe da tifare per la sopravvivenza del governo Gentiloni”.
Le cause del successo sono probabilmente più d’una: Minniti è l’unica new entry dell’esecutivo (a parte Valeria Fedeli, che tuttavia ha debuttato inciampando sul proprio curriculum) ed è dunque normale che attragga più curiosità e più aspettative di altri suoi colleghi; a causa della doppia emergenza che vive il Paese (terrorismo e migranti) praticamente ogni sera compare nei telegiornali – ma, fortunatamente, non nei talk show – e la visibilità mediatica ha sempre un ruolo essenziale nel determinare le “pagelle” dei politici; infine, ha avuto la non piccola fortuna di sostituire Angelino Alfano, il meno gradito tra i ministri di Renzi e il più inconsapevole fra coloro che hanno guidato il Viminale.
Ma c’è evidentemente qualcosa di più nel successo di Minniti: qualcosa di più profondo, qualcosa di essenzialmente politico. In una lunga conversazione con Marco Damilano, la scorsa settimana, Minniti ha spiegato senza troppi giri di parole né timidezze politicamente corrette che “sicurezza è una parola di sinistra”, perché proprio sulla sicurezza (e sull’immigrazione, che ne è di fatto parte integrante) “ci giochiamo gli equilibri democratici dell’Europa e dell’Italia”.
Ma sbaglieremmo ad etichettare il ministro dell’Interno come un neoleghista o un demagogo che gonfia i muscoli per conquistare consenso sulla pelle dei disperati che attraversano il mare in cerca di una vita migliore. Minniti, per formazione e per indole, oltreché per cultura politica, non è affatto uno “sceriffo”: è semmai, come si diceva una volta con orgoglio, un “servitore dello Stato”. E lo è per motivi familiari – figlio di un generale, nipote e fratello di alti ufficiali – e per formazione: il vecchio Pci aveva tanti difetti, ma non difettava di senso dello Stato.
In questo senso, Minniti è tra i pochi ministri ad essere contemporaneamente un “tecnico” e un dirigente politico. Da decenni frequenta servizi segreti, militari di ogni ordine e grado (con un debole per l’Aeronautica, il sogno proibito della sua giovinezza), esperti di sicurezza e di spionaggio, apparati dello Stato, forze dell’ordine, accumulando così un patrimonio di conoscenze specifiche e di relazioni personali che probabilmente non ha eguali in Italia.
Ma Minniti non è un poliziotto né un agente dei servizi né un generale: è un dirigente politico della sinistra, cresciuto nella Fgci e giunto quarantenne a Palazzo Chigi, come sottosegretario di Massimo D’Alema, capace di ascoltare e di mediare, e soprattutto di individuare e costruire soluzioni politiche – soluzioni cioè in grado di cogliere la complessità di un problema, anziché ridurlo a tecnicismo o, all’opposto, a propaganda.
Per questo Minniti ha espresso in queste settimane alcuni concetti chiari, ai quali ha poi ispirato i suoi comportamenti concreti e le sue scelte di governo: i migranti non sono criminali, ma se tra loro c’è un criminale, questi va individuato ed espulso senza troppi riguardi; l’accoglienza non deve fermarsi in mare, dove pure il nostro Paese sta compiendo uno sforzo grandioso, ma deve svilupparsi con un piano organico che coinvolga l’intero Paese, per la buona e semplice ragione che mille migranti in un singolo paesino sono un problema, dieci in cento paesi no; l’Italia non può accogliere tutti, e l’unico modo serio per fermare gli sbarchi è accordarsi con i Paesi da cui i migranti partono, a cominciare dalla Libia, dove infatti il ministro è già andato in missione.
Il doppio binario severità/integrazione – se così possiamo riassumere la “linea Minniti” – non è una novità assoluta a sinistra, ma è la prima volta che viene enunciato con tanta chiarezza e, soprattutto, messo in atto con rapidità e, almeno per quanto si può giudicare oggi, con indubbia efficienza.
Un po’ ingenerosamente, all’indomani della nascita del governo Gentiloni, D’Alema aveva osservato che “se la risposta all’esito del referendum è quella di spostare Alfano agli Esteri per far posto a Minniti, allora abbiamo già perso 4 o 5 punti percentuali, e alle prossime elezioni sarà un’ondata”. Potrebbe invece accadere il contrario: con una politica della sicurezza insieme ferma e solidale, il Pd avrà forse qualche carta in più da giocarsi alle elezioni.

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