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Giovanni Di Brusca: perchè la sua scarcerazione non è un fallimento per lo Stato

E’ da ieri che leggo commenti sulla scarcerazione di Giovanni Brusca che mi fanno torcere le budella. Quello sicuramente più quotato è “Si tratta di un fallimento dello Stato”.
Il nostro stato attraversa fallimenti quotidiani nel campo della giustizia, ogni volta che fa durare un processo decine di anni, ogni volta che tratta un imputato come se fosse già colpevole, ogni volta che tiene in carcere un innocente (e nonostante ciò che si pensa non sono pochi), ogni volta che abusa dello strumento della custodia cautelare nonostante non ne ricorrano le condizioni, ogni volta che per una persona tossicodipendente non prevede un reale percorso riabilitativo, ma solo una coatta astinenza. E potrei continuare all’infinito.
Giovanni Di Brusca ha lasciato il carcere perché la legge glielo permette dopo la sua collaborazione con la giustizia. Non mi soffermo sui motivi per cui una collaborazione può risultare inidonea a valutare il percorso di rieducazione e reinserimento di un uomo, in quanto unico strumento previsto dal nostro ordinamento per la concessione di benefici.
Nessuno nega l’efferatezza dei crimini di Di Brusca, né il dolore dei familiari delle vittime. Tuttavia, i nostri commenti sono frutto di pulsioni istintuali e umane, di un sentimento di giustizia che continua a sovrapporsi a mera vendetta. Questo non può essere il modo attraverso cui invece si misura uno Stato di diritto, fondato sulla finalità rieducativa della pena. Uno stato di diritto è tale perché non cede a pulsioni vendicative e alle regole punitive dell’occhio per occhio, dente per dente, del “Buttiamo le chiavi”, o del “Devono uscire solo morti dal carcere”. Simili conclusioni (sorpresone) non vi rendono migliori delle persone che condannate.
Ma vorrei invece raccontarvi uno dei motivi per cui invece io penso che abbiamo tutti la conferma di un fallimento palese del nostro sistema penale.
Siamo al carcere di Poggioreale, Luca aveva 25 anni e ha deciso di togliersi la vita perché non sopportava l’idea della detenzione nelle modalità in cui essa è portata avanti nel nostro Paese. Perché non tollerava la disumanizzazione cui era costretto, perché era fragile ma nessuno l’aveva considerata una cosa importante. Perché nessuno probabilmente aveva chiesto a Luca cosa l’avesse portato a sbagliare, cosa sentiva, chi era.
Luca è solo l’ennesima persona che ha deciso di togliersi la vita tra quelle quattro mura e tra quelle analoghe di centinaia di istituti penitenziari. E’ solo l’ennesimo grido d’aiuto a cui non abbiamo saputo dare una risposta umana.
Scusaci Luca, non abbiamo saputo aiutarti ma continuiamo ad essere dei barbari, ergendoci a giudici delle sofferenze e delle delle esistenze altrui.

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