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IL PD E LA SINISTRA, CHI RESTA E CHI VA

Se c’è una cosa a cui i nostri politici ci hanno abituato negli ultimi anni è il trasformismo. Questi novelli maghi della metamorfosi cambiano spoglie e sembianze con la facilità con cui si beve un bicchier d’acqua, tanto che la notizia di un voltafaccia o un cambio di partito affolla le pagine dei giornali soltanto per poche ore, e poi cede il posto ad un’altra notizia. Avanti con la prossima defezione. Il PD, per esempio, ci offre (anche in queste ore) una vasta gamma di esempi da osservare. Oltre ad essere stato, nell’ultima legislatura, il punto d’approdo di defezioni da SEL a Scelta civica, al Movimento 5 Stelle, è anch’esso vittima di svariati addii, alcuni anche dolorosi. Come quello di Stefano Fassina, per esempio.

L’ex Viceministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Letta è ormai anche un ex PD, avendo appena pochi giorni fa annunciato la sua uscita dal partito (assieme a quell’altra deputata di cui pare nessuno si sia accorto, Monica Gregori). Le ragioni le ha già spiegate lo stesso Fassina più e più volte, e del resto si era già capito da un pezzo che tra lui e Matteo Renzi non correva buon sangue. Adesso l’economista romano vorrebbe fondare un nuovo partito, per dare a quell’ala della sinistra che non si rispecchia più nel Partito Democratico e nella linea politica del premier: una sinistra che va dagli ex PD come lui, come Pippo Civati e come Sergio Cofferati, a SEL e Rifondazione Comunista.

Ora, con tutti i migliori auspici per Fassina e il suo futuro in politica, questa storia sa di già visto, già sentito. Vi ricordate di Gianfranco Fini e il suo Futuro e Libertà, e di che fine hanno fatto? A chi pensasse che il paragone sia un po’ troppo azzardato, proponiamo un altro riferimento tratto dalla storia recente della sinistra italiana. Francesco Rutelli, per esempio, che in contrasto con Pier Luigi Bersani decise di andarsene dal PD e di fondare Alleanza per l’Italia, caratterizzata da connotati politici piuttosto incerti fin dalla sua nascita, salvo poi abbandonare le scene pochi anni più tardi. Questa sinistra del PD è già lacerata dalle divisioni interne (chi riesce a tenere a mente tutte le correnti da cui è formata? Ci sono i renziani, i bersaniani, i lettiani, i civatiani…) che certo danno tutt’altra idea che quella di coesione, poi ci si mettono pure gli abbandoni. Certo, ci sono pure quelli che dalle file avversarie passano nel PD, ma chi ci garantisce che alla prossima legislatura non faranno nuovamente dietrofront e non torneranno dall’altra parte?

Si capisce che la politica è e dev’essere una questione di cuore e di ideologia, ma se il partito a cui abbiamo scelto di consacrare il nostro impegno quotidiano ci delude e non ci rispecchia più, non è detto che andar via sia per forza l’unico modo per cambiare le carte in tavola. E se, per esempio, si provasse a fare una cosa nuova: rimanere? Restare per cambiare le cose dall’interno. Non si fa che dire, a destra come a sinistra, che Matteo Renzi è un uomo solo al governo; va detto pure che ora come ora non c’è un interlocutore o un avversario altrettanto forte che si possa affiancare o contrapporre a lui. Neanche il M5S, nonostante l’ascesa politica, ha una figura di spicco che possa prenderne il posto. Una nuova sinistra forse è possibile, forse anche necessaria, ma la prima cosa che va raddrizzata è questa alleanza claudicante tra tante forze che non hanno ancora imparato a camminare insieme. Lasciare Renzi ancora più solo, nel PD, non è probabilmente la scelta migliore.

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