Economia e Welfare

La legge sul lavoro produce occupazione?

di Ernesto Nocera

Certamente no e non può, per la sua stessa natura. Essa regola il mercato del lavoro ed i rapporti fra i soggetti che vi agiscono, ma non lo sviluppo dell’occupazione che dipende da altri fattori e non dal cambiamento delle regole. Il fattore fondamentale per la ripresa dell’occupazione discenda da una politica industriale, dalla ridefinizione del ruolo del sistema Italia sul mercato internazionale, sugli esiti di una ricerca mirata, su una politica economica incentivante gli investimenti, su un’innovazione di prodotto che ci renda competitivi nel mondo. La riprova l’abbiamo nella solidità di alcuni nostri reparti d’eccellenza, che occupano, senza rivali, nicchie ad alto contenuto tecnologico.

La legge è discutibile per alcuni aspetti essenziali, a parte il difetto di origine di essere stata pensata senza e contro i sindacati. Difatti Confindustria, dopo un primo approccio laudativo, si astiene dai commenti, perché è certo che è una delle parti favorita da questa legge. Valga l’esempio: in caso di licenziamento ingiustificato il lavoratore ha diritto ad un indennizzo nei limiti e nelle forme stabilite. La legge dice che per evitare il ricorso al giudice si può ricorrere ad una procedura di conciliazione speciale. Poiché la richiesta d’indennizzo la fa il lavoratore, la richiesta di conciliazione dovrebbe farla la controparte, che difficilmente la farà. Basterà aspettare il decorrere dei 60 giorni necessari all’impugnativa, a quel punto, il lavoratore è costretto ad andare in giudizio. Conseguenze: o è risarcito dopo lungo tempo, oppure deve accettare una procedura d’accordo, che non è più quella speciale. Perciò o l’azienda paga in forte ritardo o a meno del dovuto, se il lavoratore stretto dal bisogno accetta una riduzione. Questa norma dunque rafforza lo squilibrio che c’è in un rapporto di lavoro fra azienda e dipendente, con l’azienda in posizione di forza. Altra norma discutibile è il cosiddetto “demasionamento” ovvero, l’azienda mi tiene in servizio purché io accetti di lavorare ina una mansione di livello inferiore a quello dell’assunzione. “Nihil sub sole novum”. E ‘già stato fatto sul finire degli anni trenta, quando vigeva il trucco dell’economia corporativa. Nel libro di Ruggero Zangrandi: “Il lungo viaggio attraverso il fascismo”, vi sono alcuni esempi. Il libro narra della presa di coscienza di un gruppo di giovani che, nati nel fascismo, pensavano che quello fosse il sistema politico possibile. Senza aiuto esterno, essi dapprima entusiasti delle affermazioni “rivoluzionarie” del regime sui rapporti di lavoro, si diedero a un’attività investigativa che ne confermasse la validità. Ebbero alcune brutte sorprese che li portarono sulla via dell’antifascismo come conquista personale. Mi spiego con alcuni esempi: le dipendenti della Rinascente- UPIM erano assunte a 16 anni come apprendiste con una paga che era circa un terzo di quella delle commesse. Il contratto “a tempo indeterminato” a due anni non prevedeva il licenziamento, salvo casi gravi. Quando doveva scattare la “tutela crescente” del passaggio a commessa il contratto veniva risolto e si provvedeva ad un’altra assunzione di apprendiste e così via, sicché la società aveva nei suoi 34 magazzini e 130 commesse e 1022 apprendiste. La paga di un’apprendista era di 130/150 lire mensili, mentre quella di una commessa era di 450 lire mensili. Altra forma di evasione delle regole sindacali consentita dalla legge, era il “declassamento”. Tale pratica era lasciata alla discrezione dell0imprenditore ed alle sue necessità organizzative, proprio come prevede la legge attuale.

Conosco già l’obiezione: altri tempi. La situazione è diversa ed accusare di fascismo qualcuno sarebbe scorretto. La conquista dei diritti dei lavoratori è stata sempre figlia di momenti di sviluppo. La legge 300 è figlia del boom. La parità contrattuale fu ottenuta con grandi manifestazioni di lotta in tutto il Paese. E’ bene che i giovani sappiano che ai lavoratori nessuno ha mai regalato niente. L’attacco ai diritti e alle condizioni di lavoro, sono figli, invece, della crisi. Il luogo comune corrente, accettato acriticamente dai nuovi politici e da un’opinione pubblica vittima di anni di bombardamento mediatico, è che i diritti sono “privilegi” che non essendo possibile garantire a tutti vanno aboliti e che il sindacato è un elemento di “conservazione”. L’enfasi che corre dietro questa legge è la volontà di ridimensionare il ruolo del sindacato nella società, con l’ovvia avvertenza che si intende per sindacato la CGIL essendo gli altri o subalterni o complici anche quando usano slogan “rivoluzionari”. La CGIL ha sicuramente la necessità di rinnovarsi, ma di qui a farne la nemica dei giovani e del progresso, ce ne corre. La smentita viene direttamente dalla rivista del Fondo Monetario Internazionale, che nel suo ultimo numero ha pubblicato uno studio commissionato da FMI, da cui risulta che c’è una proporzione diretta tra il calo degli iscritti al sindacato, perdita del suo ruolo e riduzione delle condizioni economiche dei lavoratori e aumento delle disparità sociali e della distribuzione della ricchezza. Da questo studio, asetticamente scientifico, si deduce che il sindacato, ha un importante ruolo di regolatore sociale, perché solo le società con un’alta omogeneità nella distribuzione della ricchezza, sono stabili ed equilibrate. La mia impressione è che queste misure vadano nella direzione di un profondo mutamento antropologico del PD, che abbandona la sua tradizionale “constituency” per trovare un punto di equilibrio moderato. Renzi ha irriso alla sconfitta del Labour in Inghilterra, accusandolo di aver inseguito una caratterizzazione di sinistra, pensando che al centro si vince. Renzi dovrebbe riflettere sul particolare, che la sconfitta di Milliband è figlia delle vittorie di Blair, che egli tanto ammira. Blair fece “mutatis mutandis” quello che egli intende fare: trasformare il new labour, spostandosi al centro, assumendo l’agenda sociale ed economica dei conservatori e spezzando i legami con le Trade Unions. Fortunatamente per Renzi, da noi non c’è niente che somigli al partito di Cameron, ma allontanare dalla politica e dalla partecipazione un elettorato particolarmente attivo ed esigente, come quello di sinistra, non è una garanzia per la tenuta democratica del Paese. Riflettere su questi problemi, è obbligo di tutti.

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