Economia e Welfare

Le norme in sé non creano lavoro

All’indomani del voto italiano alle elezioni europee, le urne ci consegnano qualche certezza e molte responsabilità. Innanzitutto gli italiani hanno confermato una vocazione europeista e il desiderio di un radicale cambiamento delle politiche di austerità fin qui adottate dall’Unione Europea. Un dato questo di straordinaria importanza soprattutto oggi, alla vigilia del semestre di Presidenza italiano della Ue. Ci si attende un’azione forte e incisiva del Governo che convinca la Comunità della necessità di adottare una politica finalmente espansiva, attenta ai bisogni dei ceti popolari, dei lavoratori e dei pensionati. L’altissima percentuale ottenuta il 25 maggio scorso dal Partito Democratico non deve tuttavia assolutamente distrarre da quelli che sono i bisogni di un Paese che dalla crisi non è mai uscito, ma che anzi resta intrappolato in una spirale recessiva. Gli ultimi dati Istat confermano un mancato innalzamento del Pil, il Prodotto Interno Lordo e, per quanto riguarda più specificatamente il Mezzogiorno, segnano un drammatico -42% sul tasso di occupazione.

Le disuguaglianze territoriali tradizionalmente presenti nel nostro Paese si sono dunque accentuate con la crisi e la Campania, al 2013, risulta essere l’area dove si registra il dato più negativo: -39, 8% di occupati. La nostra Regione, già strutturalmente fragile prima della crisi, ha dunque aggravato la propria debolezza e così oggi ci troviamo a constatare che qui da noi una donna su due non lavora, o, ancor peggio, che oltre 224 mila giovani – i dati sono della Cgil Campania – non studiano, non sono occupati e nemmeno cercano un lavoro. Sono i cosiddetti neet. Numeri pesanti che diventano una zavorra se pensiamo che negli ultimi anni in migliaia hanno lasciato la nostra regione. Una emigrazione altamente scolarizzata composta per lo più da giovani laureati che hanno detto addio a questo territorio: un’intera possibile nuova classe dirigente cui abbiamo rinunciato. Ecco perché il Governo ha il dovere di mettere lavoro e redditi al primo posto, di semplificare e sburocratizzare un’economia prigioniera di riti insopportabili, di investire risorse del pubblico per fare ripartire i motori della crescita rilanciando i diritti, i consumi interni, le chance anche per chi in questi anni è stato lasciato indietro. Al Sud ed in Campania la via è obbligata: se non investirà lo Stato lo farà la criminalità organizzata, l’unica in questo momento capace di disporre di grandi liquidità da immettere sul mercato. La Cgil, dal canto suo, ha da tempo individuato la radice possibile di uno sviluppo diverso dove, se la sfida è creare lavoro, non bastano i correttivi sulla disciplina giuridica di questo o quell’aspetto, ma serve, appunto, riscoprire il senso dell’investimento pubblico. Innovazione, diritti individuali del lavoratore, qualità sociale della cittadinanza, equità, sono ricadute di scelte che alla politica spettano e che un sindacato che rappresenta milioni di iscritti deve sapere e poter discutere. Discutere e contrattare. Già con Monti o Letta abbiamo visto saltare il rapporto tra Governo e parti sociali: il Governo andava avanti per la sua strada salvo poi scoprire, come nel caso della riforma delle pensioni, che forse sarebbe stato meglio parlarsi prima. Si fa un grande delitto quando ci si immagina che si possa saltare il confronto sulle vertenze, sulle aziende. Lo trovo un modo un po’ sbrigativo di affrontare un grande problema e cioè quello del futuro dell’assetto industriale del Paese. Continuo a pensare che la partecipazione è fatta anche del confronto diretto che non è sublimabile da alcuna rete informatica. Contrastiamo e contrasteremo l’idea di un’autosufficienza che taglia l’interlocuzione con le forme di rappresentanza negando il ruolo di partecipazione non solo al sindacato, ma al complesso dei corpi intermedi. Si tratta di una logica che sta determinando una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione. Quanto al Jobs Act la discussione è ancora in corso, seguiremo l’evoluzione partendo dal presupposto che le norme in sé non creano occupazione. La sfida deve ritornare ad essere quella della crescita e dello sviluppo del Paese.

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