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L’industria culturale ha ancora paura di Pasolini

Pasolini. Ovvero l’oggetto comunicativo di una questione pubblica. L’oggetto di una discussione aspra, degna essenzialmente dell’asprezza comprovata e senziente irrobustita dall’anniversario della morte. Pasolini ovvero l’oggetto di un dibattito, purtroppo, molto autoreferenziale tra gli agenti sedicenti culturali, che è franato in gole di controindicazioni messianiche o qualunquiste fino a risalire a picchi di retorica, che richiamavano al purismo avanguardista dinnanzi all’utilizzo massiccio, quasi invasivo, delle parole del Corsaro da parte dell’utenza dei social network, ritenuta massa bruta e inconsapevole dell’unicità poliedrica di Pasolini. Premettendo che è oggettivamente giudizioso parlare di storture protagonistiche (basta leggere il post di Muccino) e di bulimia da tastiera (come denunciato qualche me se fa da Umberto Eco), credo fermamente che, nella enorme massa di post e di cinguettii in memoria di Pasolini, non vi sia altro che la rappresentazione di due fenomeni storici di una straordinaria potenza narrativa: la ridefinizione del rapporto “ad oggi” tra Pasolini e i mezzi di comunicazione e la ridefinizione del suo rapporto “ad oggi” con il popolo. Ovvero, credo che la potenza narrativa di questi due fenomeni, disgiunti all’apparenza degli stolti in quanto intimamente e superficialmente duali, abbia segnato l’inesorabile vittoria di Pasolini sull’industria culturale omologante creata dal neocapitalismo di matrice segnico-finanziaria. Mi spiego meglio, almeno ci provo; sicuramente lo spero. Pier Paolo Pasolini, in qualsiasi veste lo immaginiamo, sia essa quella del regista, del poeta, del narratore, dello sceneggiatore o ancora del giornalista, va assolutamente storicizzato nel suo rapporto con i mass media ed il popolo tanto che la sua stessa analisi andrebbe introitata al punto da immolecolarvisi (scusate il neologismo) ma facendo attenzione alla percezione del punto di vista del lettore a noi sincrono. Ma meglio procedere con ordine. L’analisi del rapporto tra le parole di Pasolini e i mass media va riletta tenendo conto dei nuovi mezzi di comunicazione, delle enciclopedie digitali (Wikipedia e Wikiquote per intenderci) e del punto di vista differito ad oggi. Pasolini odiava la televisione ed emblematico rimane il suo scontro, elegante ma deciso, con Enzo Biagi. Pasolini odiava il rapporto tra dominante e dominato che veniva a crearsi attraverso il mezzo televisivo perché in quel rapporto c’era l’imposizione del pensiero unico che, a suo giusto modo di interpretare, passava attraverso quel medium. L’omogeneizzazione sul modello piccolo borghese doveva avvenire nel tempo, nella pura quotidianità; in sostanza, nella storia. Per definirsi nella storia, doveva impossessarsi necessariamente del linguaggio, quale elemento agente esso stesso nella costruzione della realtà. È fuori discussione che per Pasolini la funzione del linguaggio sia costituente. Grazie ad esso si arriva a costruire la realtà, si arriva a possedere un’identità comune, si arriva a fondare e riconoscere qualsiasi gruppo sociale. Il linguaggio e l’uso che di esso se ne fa trovano nell’espansione della storia e delle comunità la loro epifania. Il linguaggio, in pratica, completa la storicità ma, allo stesso tempo, si lascia da essa definire come mezzo relazionale riconosciuto e condiviso. Quindi, siamo dinnanzi ad un rapporto biunivoco in cui mezzo comunicativo e linguaggio della comunicazione si condizionano a vicenda per fare spazio all’omologazione semiotica teorizzata da Theodor Adorno e Max Horkheimer. Pasolini comprende e denuncia questa dinamica ossessiva ma non nega mai la sua presenza in televisione. Una contraddizione? Assolutamente no per un intellettuale intimamente gramsciano. Pasolini ripete costantemente che il linguaggio ha un valore ontologico e sa che il ruolo del linguaggio si definisce in base a processi definitori che scaturiscono dall’egemonia così come sintetizzata da Gramsci. L’intellettuale sardo definì il termine nei «Quaderni», scrivendo che si tratta del: “consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale del gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce storicamente dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione.” Gramsci offriva un significato profondo all’egemonia e ad essa arrivava ad assegnare un valore positivo perché intesa come un libero atto di direzione culturale, cui associarsi attraverso il consenso spontaneo. Pasolini era perfettamente cosciente del suo ruolo di intellettuale e sapeva di non potersi sottrarre alla sofferenza della presenza televisiva per innescare in quel sistema, altro rispetto a sé, il suo germe poeticamente analitico, ostinatamente contrario. Il suo fine era impedire l’assuefazione al consenso spontaneo, ostacolarlo, creare ostracismo di direzione e di soggettività morale. Il suo fine era anche la sua solitudine però. Quella solitudine che rifuggiva ma di cui si nutriva. Quella solitudine che egli sentiva anche politica ma, soprattutto, figlia della superficialità popolare. E qui giungiamo all’altro fenomeno della narrazione: il popolo e le sue varianti concettuali di gente, massa, folla, moltitudine. In tal senso e senza entrare nei particolari, il filo rosso del pensiero che lega Gramsci, Foucault e Negri era già pienamente annodato in Pier Paolo Pasolini, che anticipa con estrema chiarezza la situazione odierna, nella quale la globalizzazione capitalistica ha innescato fenomeni di deculturazione imponendo, in quanto modello storicamente predominante, i propri “universi simbolici” ed il proprio linguaggio, basato essenzialmente sul principio economicista di aziendalizzazione universale. Il popolo è solo un esercito educato al consumo. Pasolini questo lo aveva intuito e aveva denunciato le supine aspirazioni del popolo non troppo inconsapevole di cosa possa essere il potere capace di travalicare la mera funzionalità comunicazionale per investire i modi di parlare, la prosodia, le modalità dell’interazione comunicativa, le gestualità tra gli interlocutori, il modo di essere e di riprodurre la propria esistenza oltre alla propria visione di sé: in definitiva tutto ciò che è semiotico, tutto ciò che è racconto in divenire, tutto ciò che è bios e ultrabiologico.
Risulta legittimo, pertanto, chiedersi come sia stato possibile, se il sistema comunicativo rimane il medium e se il popolo è sempre lo stesso soggetto storico agente sotto spinte egemoniche, che ci siano stati in un solo giorno oltre 4 milioni di post su Pasolini?
Molti hanno parlato di moda, di assorbimento dello stesso Pasolini in quel sistema culturale come anticorpo gestibile, di conseguente svilimento della figura del poeta e dell’intellettuale. Io credo che sia proprio il contrario. Sulla spinta dei cambiamenti della morale e della partecipazione attiva al social network, il senso comune ha attribuito a Pasolini il ruolo di anticipatore veggente della crisi odierna. Il senso comune ha riconosciuto la bellezza delle sue parole, delle sue poesie, delle sue acute riflessioni. Ha fatto propria la sua voce gentile, il suo corpo sottile, il suo viso magro, quasi stravolto dalla magrezza, la sua serietà e anche la sua morte. Pasolini, il suo messaggio critico di figlio degenere della borghesia italiana, sfruttando l’evoluzione della comunicazione e la stessa volontà egemonica per la quale è stata creata, è diventato “del” popolo assurgendo al ruolo dell’intellettuale che egli stesso non immaginava diversamente e che Erri De Luca nel suo pamphlet “La parola contraria” ricordava nel suo impermeabile mai ai margini della rivolta. Per questo Pasolini ha vinto. Perché a quarant’anni dalla sua morte l’industria culturale ha ancora paura che un Corsaro ne inceppi la fluidità.

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