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PAOLOZZI.”Cronache di un processo alle vittime: colpevoli di essere stuprate”

Colpevoli di essere stuprate. In questi mesi un po’ tristi, il tema della violenza sessuale sulle donne è tornato ad occupare quotidianamente le colonne di tutti i giornali nazionali. Colpevole una classe politica inadeguata e un sistema dei media incapace di veicolare in maniera attenta le notizie, si è legato il fenomeno all’immigrazione. Si commenta da solo. La questione, volente o nolente, è ritornata al centro dell’agenda, ma in realtà non è mai scomparsa. Da sempre purtroppo in questi casi il processo alle vittime è ancora pratica diffusa. Com’era vestita? Scollatura da urlo? Atteggiamenti provocanti? Culo di fuori? Una ricerca maligna e vigliacca di un presunto concorso di colpa. Il caso lampante delle due studentesse americane stuprate da due carabinieri (forse) a Firenze ne dà la dimensione: al di là della colpevolezza dei militari, sarà un tribunale e non noi a sentenziare, si è subito cercato in maniera indiretta di screditare la versione delle due vittime. Fiumi di parole sulla notte di sballo trascorsa, riferimenti all’alcool ingerito, il comportamento un po’ “frivolo” delle ragazzine. Insomma, il tentativo di insinuare che le due fossero delle poco di buono dedite alla “vida loca” e perché no, un po’ zoccole. Con l’aggiunta del sindaco Nardella, che ha tenuto a specificare in merito all’episodio, che Firenze non è la città dello sballo.
Sfogliando un po’ i giornali, leggo di due interessanti “esperimenti” che centrano in pieno il cuore del discorso: non sentirsi mai complici dei propri aguzzini. E denunciate, denunciate, denunciate. Con il coraggio, non scontato, figlio della ragione dell’ingiustizia subita. Il primo esperimento è una mostra, organizzata e allestita dagli studenti dell’Università del Kansas (Usa). S’intitola “What Were You Wearing?” (Che cosa indossavi?): 18 vestiti con la descrizione dello stupro subito. I vestiti non sono gli stessi, ma somigliano a quelli indossati dalle vittime al momento dell’abuso. Abiti di tutti i giorni, che si potrebbero trovare nell’armadio di tutti. Da un semplice jeans a un vestitino, da un’anonima t-shirt a una gonna bordeaux. Non è ciò che indossi, ma il carnefice che ti trovi d’avanti il problema: questo il messaggio.
Il secondo esperimento tende invece a invogliare alla denuncia, ma nasconde un’insidia altrettanto pericolosa. Una studentessa olandese, Noa Jansma, stanca delle continue avances e molestie subite per strada, un giorno preso coraggio: creando un profilo Instagram ad hoc, “Dear Catcallers” (Cari stalker), ha postato il selfie con il molestatore di turno, aggiungendo in didascalia le violenze verbali e le allusioni sessuali. “Molti di loro pensano che farsi una foto sia cool. Sorridono e fanno il segno dell’ok con la mano. Questo è un messaggio per tutti i genitori dei ragazzi: educateli affinché le ragazze non siano costrette a confrontarsi con questo schifo” ha spiegato in uno dei post. Il profilo è diventato virale ed ora che l’esperimento è concluso, 30 giorni dopo, Noa ha scelto di passare il testimone ad un’altra ragazza per continuare l’esperimento-denuncia. Hashtag, non mollate!
Di sicuro, l’iniziativa è interessante. Ritrarre i volti di chi molesta dissuade altri dal farlo, così come la denuncia può sortire un efficace effetto a catena. Chapeau per il coraggio. Ma, guardando un po’ più attentamente il profilo, molte delle cosiddette molestie, molestie non sono. Forse per ingenuità si rischia, in un nobile e generoso tentativo, di sortire l’effetto contrario se si equiparano comportamenti fastidiosi ad abusi e violenze. Dire ad una ragazza che è “molto bella” oppure “vuoi un bacio” non è molestare. Può risultare di cattivo gusto e sgradevole, ma mettere alla gonga qualcuno per una semplice avances, esporlo al linciaggio virtuale e, ipoteticamente, a quello fisico è sbagliato. Inficia lo stesso principio che si vuol difendere. Una sorta di buon costume all’incontrario. Certo, dietro semplici apprezzamenti, spesso, si può nascondere l’insidia del sopruso e dell’abuso. Ma se una donna che indossa un abito sgargiante non è zoccola, se una bella ragazza non è una tentazione che legittima la violenza, allora un semplice complimento, per quanto sgradevole, non fa dell’uomo uno stupratore o un molestatore seriale.

Mariano Paolozzi da QdNapoli

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