Economia e Welfare

STUPRO DI GRUPPO A PALERMO, INTERVISTA ALL’AVV. TA MARIA GRAZIA SANTOSUOSSO

Si rimane senza parole di fronte alla notizia di uno stupro di gruppo come quello avvenuto a Palermo lo scorso luglio. Perché dei ragazzi arrivano a consumare questo tipo di orrore e poi persino a vantarsene? Lo sgomento non basta. Non basta più farsi delle domande, servono risposte.

Serve la consapevolezza che la società nella sua interezza ha il dovere di agire con urgenza per cambiare questa cultura malata.
Abbiamo incontrato l’avvocata penalista Maria Grazia Santosuosso, titolare dello studio legale MGS e le abbiamo posto qualche domanda sull’argomento partendo proprio dai fatti di Palermo.

Avvocata Santosuosso bentrovata. Il dibattito sullo stupro di Palermo si è spostato sui social. Il processo mediatico prende sempre più piede. Fino a che punto, secondo lei, può essere utile parlarne con questa modalità e quanto invece può essere pericoloso dal punto di vista delle indagini, del processo reale e della tutela della presunta vittima?

“Partirei dalla fine della domanda: la vittima. Il processo mediatico di un accadimento di qualunque forma di violenza, come ho detto più volte, non fa altro che far rivivere alla presunta vittima tutto il carico psicologico ed emotivo dell’evento traumatico. È come una tortura della mente. Il meccanismo più immediato per una vittima è l’attenuazione del ricordo soprattutto nei suoi tratti più cruenti. Portando il crimine sulle TV, sui social, sui giornali eccetera la vittima non riesce in questo meccanismo di difesa e resta intrappolata in quel vissuto. Ovviamente, fermo restando il diritto dei cittadini ad essere informati, anche per le indagini e per la decisione finale dei magistrati sulla vicenda l’eccessiva esposizione mediatica di un fatto criminoso non aiuta”.

Molte persone ritengono assurdo che un avvocato riesca a difendere dei presunti colpevoli di un reato del genere. Lei difenderebbe questi accusati?
“Certo che li difenderei, e lo farei nel miglior modo possibile. Qualunque cittadino ha diritto ad un giusto processo e a una pena adeguata. Un avvocato serve a questo, non certo a dare giudizi morali o etici, quello è il mestiere dei preti, non degli avvocati”.

Il ministro Salvini, commentando i fatti di Palermo, ha proposto come deterrente a
questo tipo di violenza la castrazione chimica. Lei ritiene che questo approccio
possa essere una soluzione o che il problema sia anche culturale?
“Viviamo in un’epoca difficile e pericolosa. Salvini usa una tragedia per fare consenso. Questo è indecoroso. La vicenda desta rabbia e indignazione, e questo è comprensibile. Ma lo Stato non può diventare come i colpevoli che vuole perseguire. In questa storia di Palermo siamo tutti coinvolti. Attenzione, non colpevoli ma coinvolti. La società sta lasciando le nuove generazioni a sé stesse. Crescono con modelli sessuali e sentimentali violenti. E in particolare la violenza sociale più diffusa è quella di genere. Sembrerà scontato, ma la società deve intervenire e può farlo attraverso la scuola. Castrare qualcuno non impedirà nuovi stupri. In America lo Stato uccide gli assassini eppure non hanno risolto il problema degli omicidi, anzi gli USA restano fra le nazioni col più alto tasso di crimini di sangue dell’occidente. Quindi uno Stato vendicativo oltre ad essere immorale non funziona, non previene, non risolve. Ad una barbarie, lo stupro, non si risponde con un’altra barbarie: la castrazione. Servono soluzioni, non soddisfazioni vendicative di massa”.

Che differenza c’è tra vendetta e giustizia?

“Due sono i principali requisiti per la giustizia: la terzietà di chi la opera con la
consapevolezza profonda che nessuna ritorsione risarcirà veramente le vittime, e in
secondo luogo una visione sistemica e organica della società, una tensione politica dello
strumento. Mi spiego meglio. Un parente di una vittima difficilmente riuscirà a fare giustizia di un fatto criminoso. Riuscirà invece benissimo nella vendetta, perché è coinvolto. È la legge del taglione, occhio per occhio, e si basa solo sulla deterrenza. Se uccidi ti uccido. La storia della giurisprudenza dà torto a questa soluzione perché semplicemente non funziona. Per questo il diritto non contempla la vendetta. È fatta giustizia invece quando la pena mira all’obiettivo finale affinché quel crimine non si
ripeta più. È una visione politica. Un bravo legislatore e la magistratura che applica la legge devono fare in modo che le pene applicate abbiano come risultato che la persona non delinqua più, che venga riabilitata, reinserita, cambiata nei suoi tratti criminali. Ecco perché la cultura della legalità funziona benissimo, molto più della vendetta. La deterrenza di finire in carcere è solo l’ultima delle funzioni della pena, perché è scarsamente efficace. Oggi invece il carcere non riabilita. E infatti moltissimi criminali escono per poi rientrare. È un fallimento e al contempo la prova che la deterrenza non funziona”.

Grazie e buon lavoro

Rosalba Carchia

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