Officina delle idee

“Uno spazio per noi” nel Carcere di Secondigliano – l’operatrice racconta

Oggi, avendo la possibilità di scrivere, vorrei cogliere l’occasione per condividere e suggerire a tutti, non solo a chi conosce il “mondo” del carcere, di guardare oltre, guardare anche il lato della speranza, della rinascita, del riscatto che si può celare dietro quelle mura che troppo spesso diventano invalicabili, più per i pregiudizi che gli attribuiamo che per altro. Insomma, di guardare oltre e comprendere che al di là di quelle mura ci sono comunque sia delle vite, dei sentimenti e non mi riferisco solo ed esclusivamente a coloro che sono reclusi, bensì parlo di tutti coloro che in un modo o in un altro possono ritrovarsi lì … e tra questi, al di là di quel “muro” si incontrano gli sguardi dei bambini che affrontano l’esperienza di avere un padre detenuto.

Tutto questo posso dirlo perché da alcuni mesi, con il progetto S.P.E.R.A. – “uno spazio per noi, sto vivendo un’esperienza meravigliosa. Un’esperienza che mi sta permettendo di guardare da un’altra angolazione. Parlo di “un’altra angolazione”, perché da diversi anni svolgo dei progetti in carcere rivolti ai detenuti, che cercano quindi di smussare idee, aprire discussioni, insomma, rendere il tempo di chi si trova recluso costruttivo, non sterile, un tempo che possa offrire quella mano tesa a chi, una possibilità se la vuole dare! Oggi però mi ritrovo dall’altra parte, dalla parte di chi una volta a settimana per un ora può viversi quella persona che ormai gli è stata tolta dalla quotidianità. Parlo quindi di madri, mogli, figli ed ecco che, nonostante non si sia commesso alcun reato, si è costretti a scontare una pena!

Bambini che potranno viversi il proprio padre tra 10, 15 anni. Padri che lottano contro se stessi perché non si sentono all’altezza di un dono così grande o meglio che si sentono in colpa per non potersi vivere coloro che amano infinitamente … i primi passi, la prima parola, il primo bagnetto. Tutto assume un’aria di privilegio con la parola “primo”. Già, perché rievoca in ciascuno di noi quell’unicità, quell’esclusività di un evento che si realizza. Lì, in quel momento … né prima né dopo! “Ed io dov’ero?” queste sono le domande, le colpe, che poi assalgono la vita di un padre detenuto, ma a tutto ciò, visto che un rimedio non c’è si può offrire quella mano tesa per affrontare diversamente questo tempo.

Il tempo scandisce la nostra vita e le attese possono sembrare infinite ed una di quelle attese è quella che precede il colloquio con la persona cara. Una moglie, una madre avranno voglia di raccontare, condividere momenti con il proprio caro, certamente l’idea del colloquio è “chiara”, ma un bambino che idea ha? Cosa investe nei confronti di quel momento? Un bambino vuole giocare, vuole scherzare, vuole essere bambino! Allora la sfida più grande deve essere quella di tutelare il diritto del bambino ad essere tale.

“Uno spazio per noi” nasce per creare un luogo dove il bambino possa sentirsi a “casa”, possa giocare, possa viversi quell’attesa al meglio. L’impatto con il carcere: ricevere il numero per l’attesa, sentire il rumore costante delle chiavi, guardarsi chiudere i cancelli alle proprie spalle, avere agenti che ti perquisiscono, lasciare ogni effetto personale in una cassettina mica è così facile! Con il carcere impari a spogliarti di tutto quello che forse, all’esterno ti fa da scudo. Un bambino tutto questo come lo codifica? Direi che è giusto colorare quell’attesa! Colorarla dando un messaggio alternativo: tutto può assumere una luce diversa, quel luogo di tristezza può essere di gioia! Io parlo di bellezza e gioia perché in un luogo come il carcere riesco ha sentire una forza, un amore e una fedeltà di sentimenti che forse presi della routine quotidiana non sentiamo, non assaporiamo.

Inoltre, credo di avere una doppia fortuna in questo percorso perché con alcuni ho la possibilità di conoscere non solo il bambino, ma anche il padre e questo ovviamente mi permette di leggere con una luce diversa la relazione. Ricordo quando mi parlavano dei loro figli e ad ognuno gli si illuminavano gli occhi, c’è stato chi mi ha detto “lui è il gioiello della mia vita” e lì non traspariva solo l’amore verso il proprio figlio, traspariva sia un po’ di tristezza per quella condanna che preclude l’esserci per quel figlio, sia la voglia di essere migliori per quel figlio.

MARIA MEOLA

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