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Claudio Marchisio: «Come ho imparato a non vincere»

Questo articolo è pubblicato sul numero 44 di Vanity Fair in edicola fino al 3 novembre 2020

«Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Il suo mantra, per 25 anni, è stato quello di Boniperti. Oggi, con lo sguardo fisso sulla sua Torino, dove è nato e cresciuto, e a un anno dal ritiro dai campi di calcio, può anche mettere un «non» davanti a «vincere», e sorridere. Il fiato è tornato buono durante il lockdown della scorsa primavera, quando ha ripreso a correre – con il ginocchio malandato che gli si riempie d’acqua ogni volta – per allenarsi.

«Avevo perso il ritmo, non mi sentivo a posto». Del resto Claudio Marchisio, 34 anni, fa da sempre tutto di corsa: a 7 anni inizia la sua carriera nella Juventus, a 15 rischia di essere selezionato per la Nazionale, a 22 si sposa con Roberta, a 23 nasce Davide e dopo tre anni Leonardo, a 24 fa il suo primo Mondiale e, dopo sette scudetti consecutivi con la Juve, l’anno scorso vince il campionato in Russia con lo Zenit San Pietroburgo.

Ma per capire la sua vita di oggi bisogna riavvolgere il nastro al 23 maggio 2017. È l’epoca prima delle elezioni che porteranno Lega e Movimento 5 Stelle a governare il Paese – Di Maio distingue tra migranti economici e rifugiati, Salvini ripete ossessivamente: «Prima gli italiani», Macron è appena stato eletto all’Eliseo, il Washington Post rivela rapporti inquietanti tra Trump e i russi, la Juventus sta per giocarsi la finale di Champions League con il Real Madrid – quando nel canale di Sicilia naufragano 500 persone. «L’immagine di una ragazzina con il salvagente disperata e aggrappata a un soccorritore mi ha “svegliato”», spiega Marchisio. «Ho scritto di impulso un post (“Viaggi della speranza che finiscono in tragedia per molte persone! Ancora corpi senza vita nel Mediterraneo. Come sta cambiando il mondo?”, ndr) ed è successo il finimondo». Ma è stata anche un’epifania, quella che racconta nel libro, appena pubblicato, Il mio terzo tempo. «Ho raccolto pensieri che avevo da tanto sul mio percorso social. E ho scritto pensando ai miei figli perché non so se un giorno si ricorderanno di questo periodo particolare che stiamo vivendo, la fine della mia carriera, il mondo che cambia…».

Quanti commenti ha ricevuto?
«In poche ore migliaia, circa 30 mila, e anche lettere scritte a mano. Il 70% negativi, ma molti erano insulti senza senso. Il resto commenti positivi e anche più strutturati, pensati».

Perché ha sentito il bisogno di «parlare»?
«Da tempo volevo commentare certi fatti, ma gli amici mi consigliavano di lasciar perdere, tenermi lontano dall’attualità, ma quel giorno il pugno allo stomaco è stato troppo forte. Parlo perché sono un cittadino come gli altri, vivo nel mondo e i social sono nati per condividere. Se non ci fermiamo a pensare, se non esprimiamo mai le nostre idee, abbiamo un problema. L’indignazione è lo sport che abbiamo dimenticato».

Da allora è intervenuto spesso sui temi di attualità: da Silvia Romano ai problemi climatici, dalle carovane verso gli Stati Uniti a George Floyd. Dove si informa?
«Leggo le notizie dei quotidiani sul cellulare e uso Twitter».

Le hanno detto di tutto. Uno: «Vuoi fare l’influencer».
«Sono amico di Mariano Di Vaio, quindi so il lavoro che c’è dietro, ma io mi vedo più come un imprenditore tra la mia società di comunicazione e i tre ristoranti da gestire».

Due: «Parla di calcio che è meglio».
«Quando avevo 18 anni si iniziava a parlare di Facebook, e il nostro sponsor ci aprì una pagina. Io non sapevo usarla, ho imparato a capire i social con il tempo, e ora purtroppo sono diventati uno strumento per giudicare tutto e tutti, senza mai approfondire. Quindi a certi commenti evito di rispondere».

Tre: «Sei un buonista».
«Quando ho parlato di migranti o di Silvia Romano, ho solo attivato il muscolo dell’empatia, ossia la capacità di mettermi nei panni degli altri. Da genitore posso capire un padre che non sa nuotare ma si mette in braccio il figlio per entrare su una barca malandata e stipata di gente, di notte, senza sapere se arriverà dall’altra parte. E posso solo immaginare il dolore di vivere il rapimento di una figlia, in un posto remoto, da parte di un kommando armato. Ho scritto quello che pensavo sempre dalla prospettiva: e se fosse successo a me?».

Esistono temi su cui non sente di intervenire?
«No, perché sono curioso. Anche se una volta ho postato sulla guerra in Siria, perché tutti i conflitti sono sbagliati, sempre. Ho ricevuto migliaia di commenti, e anche minacce di morte».

Nel libro non parla di partiti e non dichiara appartenenze, però è stato cercato dalla politica?
«Sì, mi hanno avvicinato da sinistra, e ho declinato. Adesso sono concentrato sulle mie attività, c’è l’emergenza Covid…».

Hanno scritto che le piacerebbe fare politica.
«Ho solo detto che impegnarmi mi piacerebbe, ma intendevo nel mondo dello sport, a livello di Federazione. Non è un mio obiettivo né fare il sindaco di Torino, né andare a Roma».

Il giornale Libero l’ha criticata per aver «perdonato» i ladri che sono entrati in casa sua circa un anno fa, derubandola, perché aveva detto che erano dei disgraziati.
«Non rispondo mai a queste cose, non mi interessano».

Nel 2017, all’epoca del suo post sui migranti, si discuteva anche di legittima difesa. Lei ha mai pensato di armarsi?
«Confesso che ancora oggi ho problemi a dormire la notte, e ci ho riflettuto. Ma poi ho capito che ho sempre odiato le armi e non potrò mai averne una, perché ho paura e perché penso che non abbia senso difendersi da soli. Credo che la sicurezza vada affidata alle forze dell’ordine, che vanno potenziate».

Lei ha lasciato la scuola al secondo anno dell’Istituto tecnico per geometri, pensa di recuperare il diploma?
«Sono fermo alla terza media, abbandonai perché non riuscivo più a conciliare la vita da calciatore, tra club e Nazionale, ma in casa mia la scuola è sempre stata fondamentale, e non fu un momento semplice. C’è gente che si “compra” il diploma, io non lo farei mai. Adesso non ho tempo, chissà, magari un giorno farò la maturità con mio figlio».

Se non avesse giocato a calcio, Claudio Marchisio che cosa avrebbe fatto?
«Amavo storia e geografia, volevo aprire un’agenzia di viaggi. Avrei imparato le lingue, testato i viaggi prima dei clienti. In camera avevo un mappamondo che fissavo, memorizzavo capitali. Ma sa che cosa è buffo?».

Che cosa?
«Ho paura dell’aereo, dei vuoti d’aria, delle turbolenze… E ne ho presi tanti con la squadra. Se compro io un biglietto consulto sempre prima il meteo, le condizioni devono essere ottimali sulla rotta. Sarà che la prima volta che ho volato avevo 14 anni e con la Juve andavamo a Palermo per un torneo, ma ci dirottarono a Catania per il brutto tempo. Un’altra nel 2011 con la Nazionale atterrando a Ginevra l’aereo fu colpito da un fulmine, si vedevano le scintille dai finestrini. Ero accanto a Gilardino e Balzaretti, ci siamo detti: qui l’aereo esplode».

Alla fine ha imparato le lingue?
«Con l’inglese me la cavo, l’esperienza in Russia ha aiutato. Ai miei figli faccio frequentare la scuola americana, spero che per loro sia più facile diventare cittadini del mondo».

Parliamo di gestione dei figli: nel libro spiega bene la differenza tra l’uomo evoluto che crede di essere d’aiuto, quello che fa la lavastoviglie per capirci, ma «esegue solo ordini», e la donna che ha sulle spalle tutta l’organizzazione, ossia il «carico mentale». Adesso che non fa più il calciatore, ha «alleggerito» sua moglie?
«Sicuramente faccio di più. Come tanti genitori ho dovuto gestire le dinamiche della didattica a distanza, la scorsa primavera, tra compiti e lotte per i device di casa. Poi mi sono preso uno spazio che prima non avevo, e che mi piace molto, quello della sera. Tutte le notti metto a letto i bambini e cerco di far tirare fuori a loro quello che pensano e provano».

A loro che cosa insegna sui ruoli, avendo scritto che la nostra è una società in mano a «maschi bianchi ultrasessantenni»?
«Ho due bambini che, con il papà calciatore, hanno voluto fare lo stesso sport. Ma loro sono più fortunati ora, perché hanno sempre vissuto un ambiente misto, incontrano squadre anche femminili e non hanno alcun problema, anzi».

A un certo punto si è parlato molto di «maschio metrosexual», fuori c’era David Beckham, in Italia Claudio Marchisio. Vanità, ceretta, piega, abiti eleganti…
«La ceretta non la faccio perché fa troppo male, uso il rasoio sotto la doccia, come tanti altri calciatori negli spogliatoi. Le creme le rubo a mia moglie, che si incazza, ma del resto lei è bravissima a trovare le migliori. L’eleganza… A 19 anni andavo in discoteca con l’abito, mi piaceva. Il soprannome “Principino” nasce dal fatto che spesso mi presentavo così anche agli allenamenti, ma non per vezzo: è successo spesso che arrivassi direttamente dalla serata e dormissi tre ore in macchina nel parcheggio del campo sportivo».

Oltre ad arrabbiarsi per le creme, sua moglie le rimprovera…
«Litighiamo ogni tanto ma solo per motivi di gelosia, che però è un motivo buono, tiene vivo il rapporto».

Nel libro fa autocritica, dicendo di avere assistito durante la carriera a vari episodi di razzismo, in spogliatoio o sugli spalti, ma di non avere detto nulla.
«È un rimpianto: ero troppo concentrato sulla performance, solo dopo ho capito che non c’era nulla da minimizzare».

Nonostante l’omofobia nel calcio, invece sulle unioni gay lei, Marchisio, ha preso una posizione forte, a favore, già nel 2012: quattro anni prima della legge Cirinnà e otto su Papa Francesco. Si è mai chiesto come reagirebbe se uno dei suoi figli le dicesse un giorno di essere omosessuale?
«Sì, certo. Non nascondo che sarebbe per me un momento non facile, perché siamo abituati a replicare un modello. Però penso anche che vorrei solo la loro libertà e felicità e credo che si ribalterebbero i ruoli: sarebbero loro a spiegarmi qualcosa su un amore che io non conosco».

Che cosa significa la frase finale del suo libro: «Non ho mai imparato a perdere, ma forse, invecchiando, sono migliorato nella difficile arte del non vincere»?
«Facciamo tante battaglie per arrivare ai nostri obiettivi, e restiamo delusi se non succede. La verità è che la vita è un lungo allenamento per imparare a non vincere, che significa fare un passo indietro, accettare l’imprevisto, di non avere ragione su qualcosa. Perché anche se arrivi in fondo, e il finale non è quello che ti aspetti, l’importante è il viaggio, non la meta».

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