Cultura

L’anima perduta dell’Europa. I perché della violenza occidentale nel libro di Stefania Tarantino su Maria Zambrano e Simone Weil

All’indomani della festività della donna, ci piace particolarmente parlarvi di “Aneu metros/Senza madre. L’anima perduta dell’Europa. María Zambrano e Simone Weil” (La scuola di Pitagora editrice, 2014), libro della filosofa Stefania Tarantino dedicato al pensiero di due grandi donne filosofe del Novecento.

Se ne discuterà martedì 10 marzo, alle ore 17.30, presso L’Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei 4) alla presenza illustre di Aldo Masullo e Alessandra Bocchetti che relazioneranno sul testo.  L’incontro sarà moderato da Chiara Guida e verrà arricchito da letture di passi scelti a cura di Valentina Acca. Un’esibizione musicale chiuderà il tutto con il gruppo Ardesia costituito dalla stessa Stefania Tarantino (voce e tastiera), Claudia Scuro(voce e chitarra), Ciro Riccardi (tromba).

Di cosa parla il libro? Si tratta delle riflessioni (una esposta nel primo capitolo e l’altra nel secondo) di due grandi pensatrici sulla tematica della violenza europea, occidentale. Due punti di vista che, pur nella loro differenza, sono avvicinabili per lo sforzo di ravvedere come fondamento della violenza (esacerbata nei drammi del Novecento) un comune stato di oltrepassamento della condizione umana come unione di corpo e mente in una supremazia della Ragione che, allontanando la dimensione corporale dell’uomo, ha messo da parte la sua stessa “maternità”. Ma andiamo per ordine, illustrando velocemente i pensieri della Weil e della Zambrano.

Marìa Zambrano nasce a Malaga nel 1904 ed è allieva di Ortega y Gasset e Xavier Zubiri. Tutto il suo sforzo intellettuale potrebbe essere sintetizzato nella volontà di ribaltare il pensiero oggettivante occidentale, tirando fuori dalle tenebre l’altro lato della vita, quello messo a tacere dall’imperare del logos. Il pensiero, secondo la Zambrano, è intimamente collegato al corpo, tanto da “scorrere nelle viscere”. In tal senso, la filosofa poté dire che per essere “vivente” la filosofia doveva dire l’uomo nella sua interezza, unità e non totalità per dirla con Camus, pensatore francese che fece discendere il totalitarismo da un atteggiamento totalizzante che distrugge una delle parti, dimenticando la misura. Proprio Camus si fece attivo promotore e diffusore del pensiero dell’altra filosofa esposta nell’opera, Simone Weil, nata a Parigi il 3 febbraio del 1909 e morta a soli 34 anni, dopo una vita da pensatrice e da attivista, da filosofa a operaia e contadina; una donna che incarna incredibilmente – a nostro avviso – quel “prodigio di vivere” proposto dalla Zambrano quando sognava un’unione di opposti che fosse nous e anima, sangue e mente; un processo da compiere senza presunzione ma con misericordia.

Se la Zambrano fonda le origini della violenza europea su questa ragione tracotante, la Weil individua addirittura quattro radici: la falsa idea di grandezza, la degradazione del senso di giustizia, l’idolatria per il denaro, l’assenza di spiritualità. Radici che avrebbero condotto l’uomo a perdere la propria umanità tentando  un soggiogamento della natura, l’imperio della necessità, e finendo per “comprimere il cuore”: è, infatti, quando l’uomo tenta di opporsi alla necessità armandosi di “necessità” che, non solo non si tira fuori dalle trame della natura, ma ingarbuglia se stesso nella disumanizzante macchina della burocrazia statale. L’uomo avrebbe voluto, dunque, combattere la natura divenendo natura, e così ha perso l’uomo. Tragedia delle tragedie, questo collasso dell’umanità fuori di se stessa avrebbe trascinato l’Europa al di là della sua stessa anima, di quegli antichi saperi (la connessione originaria di corpo, anima e mondo. Madre, materia e misura) che ne avevano deciso la bellezza e lo splendore.

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