Officina delle idee

Zina Hamu, con le sue foto ha raccontato il genocidio terrificante di un popolo per mano dell’Isis. Un popolo distante dal nostro

Si chiama Zina Hamu e ha 22 anni, tra i vincitori del Premio Ischia internazionale di giornalismo per i diritti umani. Ha vinto grazie alle sue foto, che portano dentro il “ricordo” del dolore vivo, di un popolo: il genocidio, che si pensava fosse sorpassato e che invece è ancora attuale solo che è proprio di un mondo lontano dal nostro, e che quindi può passare in secondo piano.

“Quattro anni fa sono stata costretta a fuggire dalla mia casa al campo profughi di Khankem, tra le montagne del Kurdistan iracheno, dove ho aderito al progetto di fotogiornalismo promosso dall’Unicef (Photographic tecnicques to empower Yazidi girl) che, insieme ad altre otto ragazze yazide mi ha permesso di diventare portavoce della sofferenza di un intero popolo” . Queste le parole di Zina, il cui sogno era quello di fare il medico, un sogno destinato a essere tale ma  per far  questo ha deciso di “salvare” vite in modo diverso, facendolo attraverso il racconto e il lavoro del giornalista che è diventato il suo.Risultati immagini per fotogiornalismo premio ischia

Quello che porta nel cuore : “Ho assistito a barbarie inanerrabili  e vorrei dire al mondo che il genocidio continua. Molta gente nel mondo non gode dei diritti umani, con il giornalismo e soprattutto attraverso i foto-racconti possiamo portare a conoscenza di questi genocidi e dare voce a migliaia di persone che vivono queste sofferenze. Tra loro ci sono anche molte donne e bambini”. Quello che traspare è che sono foto cariche di dolore, di morte e di persecuzione, e non si può neanche lontanamente immaginare quello che si prova a dover fuggire per salvarsi, avere la paura di non poter continuare più ad esistere in questo mondo orrendo. Aggrapparsi alla vita in qualunque modo possibile, sono ancora pochi rispetto alla maggioranza chi sceglie di farsi morire e di non scappare per mettersi in salvo, per continuare a sperare.

Non avevo mai pensato di poter diventare giornalista ma credo di avere un dovere morale, oggi: documentare quel che accade, il mondo non sa che il genocidio della mia comunità non si è interrotto. Le immagini possono, a volte, essere più potenti della parola. Continuerò a studiare per fare questo, non ho dubbi”. Si, le immagini sorpassano il potere delle parole, come afferma Zina,  tanto da avere un potere che sovrasta la vita stessa e fa porre delle domande a chi le osserva per la prima volta come le foto di un genocidio di donne e bambini, i soggetti più deboli, che in questo momento continua ad esistere. Una storia di riscatto quella della giornalista Hamu, che sfuggita all’Isis ha avuto la fermezza di catturare  nei suoi occhi, ma sopratutto nella macchina fotografica che portava al collo, il dolore, la violenza, le sopraffazioni, le angherie subite dalle donne che di sovente rimangono incinte dopo aver vissuto delle violenze carnali che è un pò come farsi spegnere la voce in gola. Oggi si fa un abuso della parola dolore, oggi tutti lo abbiamo vissuto, tutti possiamo dire di aver sofferto chi più chi meno, ma in pochi possono raccontare di aver subito un genocidio in Italia, di aver subito il bruciore di farsi strappare la pelle di dosso, di farsi togliere il respiro a venti, venticinque anni, perchè queste donne sono giovani e sono uguali alle altre, quelle più fortunate che non sanno cosa significa vedere la gente morire, sporcarsi con sangue non proprio, raccogliere in un urlo tutta la disperazione del mondo mentre si è prigioniere, mentre non si può scappare da mani che ti tengono immobile, e da gambe che subiscono le violenze più atroci e che lasciano il dono che resta il  più bello della vita. Queste donne in Italia, molte volte arrivano anche da morte con il grembo pieno, dopo che in mare lo hanno protetto perchè un figlio resta sempre un figlio, o arrivano senza vita ma con addosso i segni di frustate e di bruciature di sigarette. Il loro è un dramma muto che nessuno potrà rivelare al posto loro che non hanno voce se non quella delle onde del mare che le culla a riva da morte, mentre addosso hanno ancora i segni di quella che è stata la loro vita, fatta di lacerazioni, mutilazioni, odio, povertà, miseria e tanta tenerezza. Perchè di fronte a tanto male anche i suoni del mare increspato, da dove arriva questa mattanza umana, sembrano spumeggianti di malinconia, di tristezza e di un senso di colpa che dalle onde sale al mondo intero così indifferente e pigro nel volgere lo sguardo e nel caricarlo di amara compassione.

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