Cultura

Mestieri di Napoli: ‘o carnacuttaro…

E’ servita su un foglio di carta pesante, all’interno un altro di carta oleata, il tutto avvolto poi a cono. Il nostro afferra un corno di bue forato in punta contenente sale fino da spruzzare nel “coppetto” ed è quasi fatta. C’è da aggiungere il limone, si spruzza sulla carne e… la trippa è servita! Ah, già, ma chi è questo “nostro”?

Il venditore ambulante di carni cotte, in altre parole trippa, ‘o pere e ‘o musso (piede e muso di maiale) e zuppe di frattaglie. Quello che si definisce (meglio, veniva definito) ‘o carnacuttaro…

Un mestiere di origini antiche: la nobiltà ne era disgustata, ma la servitù, alle prese con la sopravvivenza quotidiana, imparò ad apprezzare e mangiare gli “scarti” dei maiali che non piacevano al padrone…

Alcuni di questi venditori possedevano anche una piccola bottega in cui si poteva gustare trippa e frattaglie in bianco, servita di solito su una fresella, oppure condita con una salsa fatta da peperoni piccanti. Questo mestiere, anche se certamente meno diffuso, è tuttora presente a Napoli e alcune storiche “tripperie” sono ancora aperte ed anche molto apprezzate.

Il carnacottaro con rapidi gesti taglia dai pezzi scelti quelli che sin dal 1600, dagli usci e i balconi delle cucine reali venivano gettati alla plebe, in segno di magnanimità di sua maestà, le frattaglie e le interiora degli animali macellati e cucinati nella reggia.

Il ministro Antonio Salandra nel suo diario del 1917 scriveva dopo una visita a Napoli: “Nel quartiere Pendino, che è nella Napoli storica, uno dei quartieri di Masaniello, vi erano le botteghe di carnacottaro. Non avevano porte, perché erano aperte notte e giorno, il loro calderone perennemente accoglieva nella sua anima bollente la zuppa di carnacotta che nel basso dialetto assumeva uno strano sinonimo. Viene detta la marescialla.”. (ndr: la “centopelle” tagliata a listarelle sembra il gallone di una divisa militare, forse da questo il nome “marescialla”).

Le grida dei venditori si levavano alte, come ricorda nel suo dizionario l’Altamura: “La sua voce è la seguente: Tengo ‘o musso, ‘o pere ‘e puorco, ‘o callo ‘e trippa!”. Più o meno come ancora oggi…

I mercanti di frattaglie erano detti merciajuoli. Solo nel dialetto napoletano il significato di mercia e di merciaiolo appare: “Mercia sono le viscere degli animali macellati. Entran pure nella mercia le teste ed i piedi e si vendono dal ventrajuolo. Interiora, ventre, testa, piede, zampa” detta il vocabolario del D’Ambra. Il merciajuolo è, dunque, chi ”vende il budellame degli animali, colui, che raccoglie presso i macelli tutto ciò che andrebbe scartato e delinea un mestiere diverso da quello del macellaio.

In alcune zone del circondario di Napoli, “‘o pero e ‘o musso” si serviva nelle foglie di verza e si vendeva con il carretto in occasione delle feste patronali o nelle campagne. Mangiare “’o pere e ‘o musso” era un giusto rinfrancarsi dopo una lunga giornata di lavoro.

Torniamo alla trippa, la parola pare derivare da diversi ceppi linguistici e significa ventre di grossi animali. La trippa è una frattaglia, più precisamente, costituita dalle diverse parti dello stomaco del bovino, o meglio dei quattro stomaci dell’animale: il rumine, il reticolo, l’omaso (centopelli) e l’abomaso o lampredotto.

A Napoli le tre ricette più note per preparare la trippa sono “al sugo”, “ ‘a zuppa ‘e carnacotta” e la “zuppa marescialla”.  ‘ A zuppa ‘e carnacotta” è un piatto antico e poverissimo, prevede trippa mista, freselle o pane raffermo, alla fine un po’ di pepe e parmigiano a piacere. La zuppa va servita caldissima, a mestolate, su poche freselle in un’ampia ciotola, accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso. Questo piatto rappresentò per anni, specie nei mesi invernali, il gustoso pasto della povera gente.

Molto nota a Napoli è la zuppa ‘a mariscialla. In origine molto simile alla prima, prevedeva, oltre alla trippa mista, in particolare cientopelli e lampredotto l’aggiunta di erbette e spezie; oggi si aggiungono anche pomodorini del piennolo, carote, sedano, e patate. Una volta cotta, va tagliata a striscioline molto sottili.

A proposito… Anche l’appellativo “zandraglia”, avrebbe a che fare con la trippa…  I cuochi francesizzati gridavano “Et voilà, les entrailles (le interiora degli animali), magnatevelle!” rivolgendosi a chi correva per contendersi gli avanzi davanti alle porte delle nobili cucine.

“Sì ‘na zandraglia” è uno dei peggiori termini dispregiativi che si può usare verso una donna, in genere quando urla e si agita.

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